Papa Pio XII
(1939-58)
- responsabile dell'Entità:
card. P.
Fumasoni Biondi.
ONU
Organizzazione delle nazioni unite
1945, con sede a New York è la più importante organizzazione internazionale
esistente; l'accordo, che costituisce la Carta o Statuto dell'ONU, è stato
firmato a San Francisco da 50 stati;
è un'unione a carattere aperto nel senso che a fianco dei firmatari (50
+ la Polonia) altri stati possono esservi ammessi purché siano amanti
della pace e diano garanzia di adempiere agli obblighi derivanti dalla
Carta; quasi tutti gli stati del mondo sono membri dell'ONU, ne restano
fuori oltre ai cosiddetti microstati (come Andorra, Liechtenstein, San
Marino), la Svizzera, le due Coree, il Vietnam, Taiwan e la Rhodesia;
Organismi:
- assemblea generale:
è composta da tutti gli stati membri, ognuno dei quali ha diritto
di avere cinque rappresentanti ma dispone di un solo voto; in pratica
funge da tribuna internazionale;
- consiglio di sicurezza:
è composto da 15 membri, dei quali 5 permanenti (USA, URSS, Repubblica
Popolare Cinese, Gran Bretagna, Francia) e 10 eletti ogni due anni dall'assemblea;
- consiglio economico e sociale:
è composto da 54 stati eletti dall'assemblea per la durata di 3 anni;
- consiglio di amministrazione fiduciaria:
ha il compito di controllare l'amministrazione dei territori sottoposti
ad amministrazione fiduciaria;
- Corte internazionale di giustizia:
è il principale organo giudiziario dell'ONU;
- segretariato:
è composto dal segretario generale e dal personale a lui dipendente;
a causa del gioco dei veti incrociati delle grandi potenze che siedono
al consiglio di sicurezza, l'attività dell'ONU è di fatto paralizzata,
almeno fino alla fine della guerra fredda;
segretario generale:
- 1946-53, Trygve Lie.
"Operazione Aussenweg"
1945
Aprile
«segue da marzo 1945Ï
Il conte Gino Monti viene catturato dagli
inglesi e rinchiuso in un campo di prigionia "speciale" dove
si trovano tutti quei nazisti che nel dopoguerra possono fornire informazioni
utili sui latitanti e sulle attività tecniche e scientifiche sviluppate
e finanziate dal regime di A.
Hitler.
Due collaboratori del vescovo A.
Hudal a Roma, che aiutano diversi
nazisti a fuggire, sono:
. mons. Heinemann (non molto benvoluto dai
tedeschi), incaricato di esaudire le richieste dei gerarchi nazisti rifugiati
a Santa Maria dell'Anima;
. mons. Karl Bayer.
[Quest'ultimo, intervistato dalla scrittrice Gitta
Sereny (per il suo libro In quelle tenebre) ricorderà
che per anni lui e A.
Hudal hanno aiutato per anni i nazisti con l'appoggio del Vaticano:
«Il papa forniva effettivamente denaro a tale
scopo; a volte con il contagocce, ma comunque arrivava».
Stando alle stime dell'Ufficio Immigrazione argentino, si stima che nel
dopoguerra siano arrivati nel paese circa cinquemila croati, dei
quali:
- duemila partiti da Amburgo,
- duemila da Monaco,
- circa un migliaio dall'Italia, concretamente, dal Vaticano.
|
II
GUERRA MONDIALE
1945
Aprile |
"Operazione
Odessa"
[O.D.E.SS.A.: Organisation der Ehemaligen
SS-Angehorigen = Organizzazione degli ex-membri delle SS.] |
Questo organismo ha il triplice scopo di salvare
i camerati dalle forche degli Alleati, esportare gli ingenti capitali
che molti ufficiali tedeschi hanno accumulato negli anni del nazismo
(soprattutto quelli proveniente dalla confisca di beni, preziosi
e quant'altro ai deportati nei campi di sterminio) e creare un
Quarto Reich che completi l'opera di A.
Hitler.
Già a due mesi dalla fine della guerra, sono approntati
i primi piani di fuga per i dirigenti nazisti: il ministro dell'Interno
del Reich e comandante delle Schutzstaffel (le famigerate
SS) H.
Himmler, quando vede che tutto è perduto, dà
vita all' "Operazione Außenweg",
affidandone la direzione al giovane capitano delle SS
C. Fuldner.
Il cuore e il cervello dell'intera operazione è a Roma
nel cuore del Vaticano. Attraverso la cosiddetta "Via
dei Monasteri" (detta anche ratline
o Rattenlinien ovvero la
"via dei ratti"), la Chiesa
cattolica non è solo complice dell'operazione, ma protagonista
indiscussa a vari livelli: i suoi vertici sono:
. card. E.
Tisserant, francese,
. card. A.
Caggiano, argentino,
mentre la dimensione operativa è curata da una pattuglia
di alti prelati, tra cui:
. mons. G.
Siri, genovese, futuro cardinale,
. mons. A.
Hudal, vescovo austriaco, parroco della chiesa di Santa
Maria dell'Anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della
comunità tedesca in Italia,
. mons. A.
Barrère, vescovo argentino,
. don K.S.
Draganovic, sacerdote croato,
. Edoardo Dömoter, francescano
ungherese della parrocchia di Sant'Antonio di Pegli a Genova,
. padre K.D.
Petranovic,
. Antonio Weber, sacerdote pallottino,
e molti uomini che fanno parte dell' "Entità",
il servizio segreto del Vaticano.
Mons. G.B.
Montini (il futuro papa Paolo
VI) è a conoscenza della cosiddetta "Via
dei Monasteri".
[Secondo alcuni storici il futuro Paolo
VI è, assieme al card. E.
Tisserant e il card. A.
Caggiano, uno dei "progettisti" della via
di fuga dei criminali nazisti).
La fuga verso "porti sicuri", non riguarda unicamente
i criminali di guerra tedeschi, ma anche molti:
- ustascia (termine che in croato significa
"insorgere", "risvegliare" e che è
utilizzato per designare gli appartenenti al movimento cattolico-nazionalista
croato di estrema destra che si opponeva a un regno di Jugoslavia
federativo) che beneficeranno dell'aiuto della Chiesa di Roma,
tra cui:
. Ante
Pavelic, dittatore fantoccio croato,
. Stjepan
Hefer,
. Mile Starcevic,
. Vjekoslav
Vrancic, ex viceministro degli Esteri,
. Petar Pejasevic,
ex ambasciatore nella Spagna di F.
Franco Bahamonde [el Caudillo];
. Ivan
Herencic, ex generale, ex capo della
polizia e dell'esercito fascista croato,
. Ivo Orsanic, ex
capo della gioventù Ustaše,
. Josip Balen, ex
ministro delle Foreste,
. Ante Vrkljan,
ex alto ufficiale dell'esercio croato,
. Ivo Rojnica,
ex capo del quartier generale "Dubrava Ustasha"
a Dubrovnik,
. Dinko
Sakic, ex assistente comandante del
campo di concentramento di Jasenovac,
. ecc.
[Negli anni Trenta, in Argentina, l'immigrazione croata superava
già le 100.000 presenze e al suo interno sono sorte associazioni
nazionaliste vicine al governo collaborazionista di Zagabria.
Nel periodo postbellico, secondo una stima affidabile, si stabiliranno
in Argentina circa 5000 croati, 2000 provenienti da Amburgo, 2000
da Monaco e 1000 da Roma. Altre stime indicheranno una cifra compresa
tra 10.000 e 35.000.
Molti andranno a Evita City o contribuiranno alla costruzione
del nuovo aeroporto internazionale di Buenos Aires. Sarà
B. Benzon
a condurre i nuovi arrivati sul luogo di lavoro. Inoltre, a volte,
il ministro dei Lavori pubblici del governo peronista, J.
Pistarini – noto per le sue simpatie naziste durante
la guerra – si recherà di persona al porto e caricherà
gli immigrati croati su autobus che li conducono direttamente
ai cantieri.]
- gerarchi e fascisti italiani, tra cui
. Cesare
Maria De Vecchi, quadrumviro,
. Luigi
Federzoni,
. Piero
Parini, ex segretario generale dei "Fasci
all'Estero" nonché podestà e poi capo della
provincia di Milano (1943-44),
. Carlo
Scorza, ultimo segretario del Pnf
(Partito nazionale fascista),
. Tullio
Tamburini, ex capo della polizia della
Rsi (Repubblica sociale italiana),
. Giuseppe
Spinelli, ex ministro del Lavoro della
Rsi (1943 23 set - 25 apr 1945),
. Edoardo
Moroni, ex ministro dell'Agricoltura e Foreste
della Rsi (1943 23 set - 25 apr 1945),
. Enzo
Grossi, il più attivo tra i
neofascisti in Argentina,
. Francesco
Giunta, ex segretario del Pnf
(1923 13 ott-23 apr 1924) nonché membro del Partito
Fascista Repubblicano (1943-45),
. don Sigfrido
Eusebio Zappaterreni [padre
Eusebio], ex cappellano capo delle Brigate Nere della Rsi,
. ecc.
I gerarchi italiani espatriano quando ancora sono ricercati dalla
giustizia, grazie ai documenti falsi e alla protezione dei salesiani.
Più eclatanti sono invece le protezioni garantite agli
ustascia. Si tratta di criminali che,
per conseguire il risultato di uno Stato (la Croazia) razzialmente
puro e cattolico al 100%, non hanno esitato a compiere fucilazioni
di massa, decapitazioni, bastonature a morte, suscitando orrore
perfino negli alleati nazisti.
Alla fine della guerra circa settecentomila persone moriranno
nei campi di sterminio ustascia a Jasenovac e altrove: le vittime
appartengono soprattutto alla popolazione serba ortodossa, ma
nell'elenco figurano anche moltissimi ebrei e zingari.
Il principale teorico del regime croato, I.
Guberina, è un sacerdote cattolico romano che
predica la "purificazione religiosa"
e l' "igiene razziale"
per fare della Croazia una "terra ripulita
da elementi considerati estranei".
Tra i più noti criminali di guerra fuggiti in Sud America
attraverso la Ratline,
ricordiamo anche:
. Adolf
Eichmann (l'organizzatore della soluzione
finale degli ebrei),
. Josef
Mengele (medico autore di efferati
esperimenti nel campo di Auschwitz),
. Heinrich
Müller (capo della Gestapo),
. Richard
Glücks (ispettore dei campi di
concentramento),
. Klaus
Barbie (comandante della Gestapo
a Lione),
. Erich
Priebke (coinvolto nell'eccidio delle
Fosse Ardeatine a Roma),
. Gerhard
Bohne (responsabile del programma
di eutanasia per lo sterminio degli handicappati fisici e mentali),
. Dinko
Sakic (responsabile del campo di concentramento
croato di Jasenovac),
. Franz
Stangl (comandante del campo di concentramento
di Treblinka),
. Walter
Rauff (l'inventore dei camion-camera
a gas),
. Edward
Roschmann (ex comandante del ghetto
di Riga, definito il "Macellaio di
Riga"),
. Josef
Schwammberger (comandante altoatesino
del ghetto di Przemsy),
. Herman
von Alvensleben (responsabile in Polonia
della morte di almeno ottantamila persone),
. Carl
Peter Vaernet (medico danese inventore,
a suo dire, della "inversione della polarità ormonale",
che poteva dare una soluzione al problema dell'omosessualità).
A loro si aggiungono anche criminali di guerra o collaborazionisti
francesi del rango di:
. Marcel Boucher,
. Fernand de Menou,
. ing. Robert
Georges Pincemin,
. ing. Emile
Dewoitine.
Molti beneficiano dell'esilio in Sudamerica. Si tratta nella maggior
parte di "manovali" dell'Olocausto e della guerra sporca
di A.
Hitler.
Tutti inizieranno nella nuova patria una vita tranquilla, col
beneplacito dei regimi di destra latinoamericani, soprattutto
dell'esordiente regime peronista, ma anche col viatico di Washington.
Molti saranno gli studi su questa vicenda, come molti sono i documenti
che comprovano le solidarietà e le complicità nella
fuga dei criminali di guerra. Come il rapporto finale della Ceana
(Comisiòn para el Esclarecimiento de las Actividades
del Nazismo en la Argentina), costituita presso il Ministero
degli Affari Esteri dal presidente argentino C.S.
Menem e di cui sarà coordinatore scientifico
lo storico Ignacio Klich dell'università
di Westminster in Gran Bretagna.
L'organizzazione O.D.E.SS.A. progetta
minuziosi piani di fuga, tracciando tre itinerari principali:
- 1° - parte da Monaco di Baviera e si collega a Salisburgo
per approdare a Madrid;
- 2° e 3° - questi due percorsi partono da Monaco di Baviera
e, via Strasburgo o attraverso il Tirolo, giungono a Genova (il
terminale ove opera l'arcivescovo G.
Siri), dove i gerarchi possono imbarcarsi verso l'Egitto,
il Libano, la Siria, il Sudamerica.
Le vie di fuga convergono sempre verso Memmingen, un'antica cittadina
tra la Baviera e il Württemberg, per poi dirigere su Innsbruck
ed entrare in Italia attraverso il valico del Brennero. Gli spostamenti
tra Germania meridionale, Austria, Tirolo e Italia settentrionale
si svolgono in grande sicurezza a tappe di circa cinquanta chilometri,
a ognuna delle quali corrisponde una "stazione" gestita
da tre-cinque persone che conoscono solo la stazione precedente
e quella successiva.
Il corridoio vaticano comprende due vie di fuga:
- 1ª - Svizzera-Francia-Spagna-Gibilterra-Marocco-Sudamerica;
[Praticato specialmente dai nazisti e da tutti i collaborazionisti
del regime hitleriano.]
- 2ª - Svizzera-San Girolamo-Genova-Sudamerica;
[principalmente dagli ustascia che, prima di fuggire,
trovano sicuro alloggio presso il convento di San Girolamo, un
monastero croato in via Tomacelli a Roma.]
Nel 1946 il card. A.
Caggiano si recherà in Vaticano offrendo alla
Segreteria di Stato, a nome del governo di Buenos Aires, la disponibilità
del Paese sudamericano a ricevere ex nazisti "perseguitati"
dagli Alleati.
Nel frattempo il capitano C.
Fuldner, che ha passaporto argentino, diviene direttore
della Daie (Dirección Argentina
de Immigración Europea), con sede a Genova in via
Albaro. La Daie diviene il terminale
europeo della "via dei topi".
L'ufficio genovese della Daie farà
pervenire a Buenos Aires l'elenco delle persone da ospitare. A
Buenos Aires le pratiche saranno sbrigate dalla Sare
(Sociedad Argentina de Recepción de Europeos),
fondata nel maggio del 1947 da P.
Daye, un criminale di guerra belga in stretti rapporti
con J.D.
Perón e con l'arcivescovado argentino.
L'interessamento di J.D.
Perón e della Chiesa argentina sarà così
alto, che le primissime riunioni della Sociedad si terranno alla
"Casa Rosada", mentre la prima sede della Sare
si troverà in un vecchio palazzo di proprietà della
curia di Buenos Aires, in via Canning.
Ottenuti da C.
Fuldner gli elenchi dei nazisti da far fuggire, la
Sare spedirà a Genova i visti
d'ingresso, completi delle foto dei criminali ma intestate a nomi
fittizi. Da Genova, la pratica passerà a Roma, dove la
sede della Croce Rossa rilascierà i passaporti relativi
ai nomi falsi, rispedendoli a Genova. Fatto ciò, basterà
trovare posto per i fuggitivi sulla prima nave per l'America Latina.
Il card. G.
Siri (eletto vescovo ausiliare di Genova l'11 marzo
1944, e arcivescovo della stessa città il 14 maggio 1946)
è coinvolto direttamente in questi progetti di fuga. È
tramite due associazioni, entrambe da lui fondate, che la Curia
genovese possiede per l'assistenza ai profughi, che l'arcivescovado
di Genova dà assistenza alla rete di fuga.
Il diretto coinvolgimento di mons. G.
Siri troverà conferma non solo nelle risultanze
della Ceana (Comisión para
el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina),
costituita dal presidente argentino C.S.
Menem nel 1997, ma anche in una nota del CIC
(Counter Intelligence Corps) (servizio segreto militare
statunitense), dove si afferma che G.
Siri dirigeva "una organizzazione
internazionale il cui scopo era favorire l'emigrazione di europei
anticomunisti in Sudamerica [.]. Questa classificazione di anticomunista
deve estendersi a tutte le persone politicamente impegnati contro
i comunisti, ovvero fascisti, ustascia, e altri gruppi simili".
Le due associazioni che fanno capo all'arcivescovado di Genova
sono:
- "Auxilium", fondata nel 1931 come
ente di assistenza e beneficenza,
- "Comitato Nazionale Emigrazione in Argentina",
che sarà impiantato invece nel 1946.
[Anche la Pontificia Commissione di Assistenza ha un ufficio nella
stazione ferroviaria della città (Porta Principe).]
Un importante centro di accoglienza della struttura gestita da
G.
Siri è la chiesa genovese di San Teodoro, ove
molti fuggiaschi sostano e ricevoro cibo, assistenza, documenti
per imbarcarsi sulle navi della salvezza. Il parroco di San Teodoro,
Bruno Venturelli, sarà ringraziato
per il suo operato da William Guyedan,
ex ministro francese del governo di Vichy condannato per collaborazionismo.
Importante pedina del canale genovese per la fuga degli ustascia
è padre K.D.
Petranovic: dai primi mesi del 1946 fino all'inizio
del 1952 gestirà direttamente i rapporti tra Vaticano,
Croce Rossa, "Auxilium" e "Comitato Nazionale Emigrazione
in Argentina". K.D.
Petranovic, già cappellano ustascia, fugge nel
1945 rifugiandosi a Milano. Da questa città passa a Genova,
con tanto di "raccomandazione scritta" da parte del
card. Shuster: "Eccellenza
reverendissima – si legge nel biglietto rivelato il 2 agosto
2003 dal "Secolo XIX" – don Carlo
ha conoscenza, in lingua e in cultura, della situazione dei rifugiati
e dei profughi di guerra dell'Est e della Germania. Per questo
è persona che può sostenere l'opera di carità
dell'Auxilium". K.D.
Petranovic si occupa di
prelevare da Roma i passaporti per una nuova vita dei nazisti
in fuga. Egli stesso, a sua volta, fuggeì in Canada, a
Niagara Falls, ospite di una comunità di suore. L'8 giugno
1988, padre K.D.
Petranovic otterrà anche il titolo di monsignore.
A Genova opera anche un altro sacerdote: don Edoardo
Dömöter, francescano di origine ungherese, divenuto,
alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, parroco della
chiesa di Sant'Antonio di Pegli. Negli archivi del Comitato Internazionale
della Croce Rossa di Ginevra esiste una richiesta, la numero 100940,
sottoscritta e inoltrata da padre Edoardo
Dömöter alla sede genovese della Croce Rossa
per un passaporto intestato a tale Riccardo
Klement, in realtà A.
Eichmann.
A tenere i collegamenti tra nazisti e Vaticano sono C.
Fuldner e don K.S.
Draganovic. Quest'ultimo, oltre ad essere segretario
della Confraternita romana di San Girolamo, era anche "Visitator
apostolico" per l'assistenza pontificia ai croati, cioè
un funzionario della segreteria di Stato del Vaticano che dipende
direttamente da mons. G.B.
Montini.
Don K.S.
Draganovic visita ufficialmente i campi dei prigionieri
di guerra e come "Visitator apostolico" è riconosciuto
come rappresentante della Santa Sede dalle autorità alleate.
C.
Fuldner e don K.S.
Draganovic, si servono a loro volta di R.
Kopps, da parte tedesca, e di Gino
Monti di Valsassina (nobile italiano di origine croata),
da parte vaticana. R.
Kopps usa il nome fittizio di Hans
Raschenbach e un passaporto falso fornito dall'Entità
vaticana.
Oltre a K.
Barbie, tra le altre persone "difese" da
don K.S.
Draganovic figurano gli ex-ministri del governo ustascia:
. Dragutin Toth,
. Vjekoslav Vrancic,
. Mile Starcevic,
. Stjiepo Peric,
così come l'ex-capo dell'aviazione Vladimir
Kren.
Alcuni di loro si nascondono all'interno dell'Istituto di San
Girolamo o in Vaticano.
Il terminale austriaco di don K.S.
Draganovic è don V.
Cecelja, già collaboratore del regime di A.
Pavelic durante la guerra e schedato dal governo di
Tito come criminale di guerra numero
7103. V.
Cecelja fu il sacerdote che officiò la cerimonia
del giuramento di A.
Pavelic, impartendo così la benedizione della
Chiesa al regime fantoccio dei nazisti. Provvisto di documenti
americani e della Croce Rossa, don V.
Cecelja può svolgere il suo compito viaggiando
liberamente nella zona di occupazione statunitense.
La rete di ecclesiastici impegnati nel facilitare la fuga di nazisti
e fascisti fa capo, a Roma, a mons. A.
Hudal, rettore fino al 1952 del Pontificio Collegio
di Santa Maria dell'Anima.
Nella relazione conclusiva presentata dalla Ceana
(Comisiòn para el Esclarecimiento de las Actividades
del Nazismo en la Argentina) nel 1999, le responsabilità
di mons. A.
Hudal sono lampanti. In una lettera del 31 agosto 1948
il egli spiegherà a J.D.
Perón che i visti richiesti non sono per profughi
ma "per combattenti anticomunisti il
sacrificio dei quali durante la guerra ha salvato l'Europa dalla
dominazione sovietica".
A Roma mons. A.
Hudal si serve di mons. Heinemann
e del sacerdote Karl Bayer: il primo
è incaricato di esaudire le richieste dei nazisti rifugiati
a Santa Maria dell'Anima, l'altro protegge e assiste i criminali
nazifascisti in fuga. Quest'ultimo era stato un paracadutista
dell'esercito hitleriano, poi imprigionato nel campo di Ghedi,
vicino Brescia, e fatto fuggire grazie all'aiuto di don K.S.
Draganovic. Divenuto membro del clero cattolico, viene
inserito all'interno dell'organizzazione ecclesiastica che assiste
i criminali nazifascisti in fuga, procurando loro falsi documenti,
denaro, cibo, lettere, alloggi.
Karl Bayer ammetterà (nel
libro di Gitta Sereny, In quelle
tenebre, Adelphi, Milano, 2005) che papa Pio
XII ha fornito denaro per aiutare i nazisti in fuga, "a
volte col contagocce, ma comunque arrivava".
Un altro piccolo pezzo dell'ingranaggio che permette la fuga dei
nazisti è la ricca ereditiera M.
d'Andurain, che ha stretti contatti in Vaticano attraverso
il nunzio a Parigi e con mons. A.
Hudal. Proprietaria di uno yatch, il "Djeilan",
M.
d'Andurain attraverserà regolarmente lo stretto
di Gibilterra sino a Tangeri. Il 5 novembre 1948 il suo corpo
senza vita sarà ritrovato nella baia di Tangeri.
La presenza dei fuggiaschi in Argentina è concentrata
in luoghi particolari e, schematizzando, le zone prescelte sono
quattro:
1 - Selva misionera, che offre sicurezza per la sua posizione
lungo le frontiere con Paraguay e Brasile;
2 - la valle di Calamuchita e le grandi sierre di Córdoba,
nel centro dell'Argentina, e con piccole comunità in un
paesaggio alpino come – fra le altre – Santa Rosa de Calamuchita,
La Cumbrecita e Villa Generale Belgrano;
3 - la regione che circonda San Carlos de Bariloche, fra laghi
e montagne e a un passo dalla frontiera con il Cile;
4 - le località a nord della capitale federale: Villa Ballester,
El Palomar, Olivos, San Isidro, Vicente López, Florida
e San Fernando.
|
BIBLIOGRAFIA
- Ratlines, di M. Aarons M. e
J. Loftus - Newton & Compton, Roma, 1993
- Organizzazione ODESSA, di J.
Camarasa - Mursia, Milano, 1998
- Giustizia, non vendetta, di S.
Wiesenthal - Mondadori, Milano, 1989
- La via dei demoni, di G.M. Pace
- Sperling & Kupfer, Milano 2000
- La chiesa cattolica e l'olocausto, di M. Phayer - Newton
& Compton, Roma 2001
- "Dio è con noi!", di M.
A. Rivelli - Kaos, Milano, 2002
- Una questione morale. La chiesa cattolica e l'olocausto,
di D. J. Goldhagen - Mondadori, Milano,
2003
- Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina
di Perón, di U. Goñi
Uki - Garzanti, Milano, 2003
- I nazisti che hanno vinto. Le brillanti carriere delle SS
nel dopoguerra, di F. Calvi -
Piemme, Casale Monferrato, 2007
- La fuga dei nazisti. Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic
da Genova all'impunità, di A.
Casazza - Il Nuovo Melangolo, Genova, 2007
- Oltremare sud. La fuga in sommergibile di più di
50 gerarchi nazisti, di J. Salinas
J. e C. De Napoli - Tropea,
Milano, 2007
- The Vatican Files, - sito web: http://www.vaticanfiles.net/default_eng.htm
[Rielaborazione per esigenze del sito da: "RATLINE",
Il patto
con il demonio, di Renzo Paternoster.
http://win.storiain.net/arret/num148/artic3.asp] |
|
Quanti furono i criminali di guerra compromessi
con il regime hitleriano finiti in Argentina?
Ecco il rapporto finale della commissione che ha indagato quei
fatti.
Nel 1945 furono processati e condannati a Norimberga i più
alti gerarchi del nazismo, da Goering
a Hess, da Keitel
a von Ribbentrop. Dopo la punizione
esemplare dei protagonisti il mondo dimenticò però
i comprimari, che pure erano stati gli ingranaggi senza i quali
la macchina dello sterminio non avrebbe potuto funzionare. Quanti
erano questi gregari?
Certamente molti, se solo nelle zone di occupazione occidentali
vengono arrestate, all'indomani della resa tedesca, 182.000
persone sospettate di partecipazione a crimini nazisti
(e 5000 condannate). Ma ciò che più conta è
che, confusi nella massa degli assolti dopo sommario esame e degli
sbandati che vagavano per l'Europa, ci sono personaggi "minori",
per modo di dire. Parliamo dei Mengele,
degli Eichman, dei Priebke,
dei Klaus Barbie nonché di
W. Rauff,
l'inventore dei camion-camera a gas; Eduard
Roschmann, l'ex comandante del ghetto di Riga giunto nel
'48 a Buenos Aires da Genova con un passaporto della Croce Rossa
intestato a Federico Wegener; Fridolin
Guth, implicato nel colpo di stato del '34 a Vienna che
costò la vita al cancelliere E.
Dollfuss e torturatore in Francia.
Queste figure intermedie possono contare sulla tolleranza delle
autorità alleate che nel clima di incipiente Guerra Fredda
consentono di fatto agli ex nazisti di occultarsi in patria o
di emigrare in paesi lontani. Nessuno meglio degli hitleriani
può infatti difendere l'Occidente dal bolscevismo.
Tra il '45 e il '48 sono centinaia di migliaia le persone di lingua
tedesca che si muovono lungo la rat-line,
la "via dei topi" che dall'Europa continentale conduce
a Genova e agli altri imbarchi per il Sud America, soprattutto
per l'Argentina, dove molti "ex" trovano una seconda
patria. Dei criminali di guerra approdati nel paese, l'Argentina
ne estrada ben pochi:
. Juan Bohne, il terminatore di handicappati,
dementi e altri "inquinatori" della razza;
. E. Roschmann,
comandante del ghetto di Riga;
. D. Sakic,
responsabile del campo di concentramento di Jasenovac, nella Croazia
ustascia;
. J. Schwammberger,
comandante altoatesino del ghetto di Przemsy;
e da ultimo E.
Priebke.
(A.
Eichmann, l'ideologo della "soluzione finale",
non viene estradato ma rapito dai Servizi israeliani).
Si tratta di un piccolo gruppo, a fronte del quale c'è
il gran numero di coloro che rimangono impuniti, dei manovali
dell'Olocausto che in Argentina riprendono una vita tranquilla
col beneplacito dell'esordiente regime peronista e il viatico
di Washington.
La presenza nazista in Argentina sarà per lunghi anni accantonata
dagli uni ed esagerata dagli altri a seconda delle circostanze
e dello schieramento politico.
Nel 2000 uno studio pluridisciplinare e approfondito fornirà
di questo inquietante capitolo della storia nazionale un quadro
molto più obiettivo.
É il rapporto finale della Ceana
(Comisiòn para el Esclarecimiento de las Actividades
del Nazismo en la Argentina) a suo tempo istituita presso
il ministero degli Affari Esteri dal presidente C.S.
Menem e di cui è coordinatore scientifico lo
storico Ignacio Klich dell'università
di Westminster in Gran Bretagna.
Professor Klich, si stenta a capire
perché dei criminali di guerra siano riusciti a vivere
indisturbati in Argentina.
"Produrre prove di colpevolezza utilizzabili in giudizio
non è facile, guardi il caso recentissimo di K.
Kalejs, il nazista lettone ritenuto corresponsabile
della morte di trentamila ebrei ma che l'Inghilterra ha dovuto
rilasciare. I dati necessari a inchiodare i colpevoli vanno cercati
con perizia, ciò che non sempre è stato fatto dalle
stesse organizzazioni ebraiche".
"C'è confusione sulla dimensione del fenomeno, nel
senso che sulla diaspora dei nazisti circolano le cifre più
stravaganti, vedi i sessantamila criminali di guerra che secondo
l'ex funzionario del dipartimento americano della Giustizia John
Loftus sarebbero stati nascosti dagli Alleati in Argentina.
Dal canto suo il Centro Wiesenthal ha segnalato alla nostra Commissione,
nel 1998, ventidue nomi di criminali residenti nel paese, ma a
tutt'oggi l'elenco rimane privo di conferma. La Ceana
si è invece basata solo su documenti o testimonianze attendibili".
Quale conclusione avete raggiunto?
"Abbiamo ricavato una lista di 180 individui - criminali
di guerra condannati o sospettati, o collaborazionisti - approdati
in vario modo in Argentina. Di questi, una trentina sono tedeschi,
più di cinquanta di origine croata, e circa cento tra francesi
e belgi. Da notare che i criminali gerarchicamente più
importanti (e meno noti) non sono arrivati dalla Germania ma da
altri paesi, mi riferisco a A.
Pavelic e Ostrowski".
Perón cercava tecnici tedeschi,
operai specializzati e, con minore interesse, laboriosi contadini
italiani. Come mai accettò due feroci capi di stati filonazisti
come il croato Ante Pavelic e il bielorusso Radislaw Ostrowski?
"L'Argentina non era mai stata favorevole all'immissione
di gente proveniente dall'Europa orientale e dai Balcani. Se J.D.
Perón accolse quei due lo fece per intercessione
o pressione di qualcuno, cioè per via di condizionamenti
venuti da fuori".
Da parte di chi? Degli americani,
del Vaticano? Intende dire che la Chiesa cattolica fu connivente?
"Sì, e qualcosa in più.
Lo storico italiano Matteo Sanfilippo
ha potuto provare l'intercessione del card. E.
Tisserant a favore di cinque fuorusciti del regime
di Vichy che si trovavano a Roma e che, tornando in Francia, avrebbero
subito le conseguenze dell'aver collaborato coi tedeschi. È
noto anche l'aiuto fornito a ex nazisti dal vescovo austriaco
A.
Hudal, rettore del Collegio germanico di Roma e da
padre K.S.
Draganovic, l'ex colonnello ustascia divenuto capo
di San Girolamo degli Illirici, sempre a Roma: troppi dati per
ignorare che da parte di alcune personalità ecclesiastiche
ci fosse l'intento di agevolare l'ingresso in Argentina di certi
personaggi".
Emerge un ruolo di papa Pacelli
nella vicenda?
"Difficile dirlo perché il papa non firmava, come
non firma, le lettere della Segretaria di Stato. Quando si potrà
finalmente accedere alla documentazione vaticana e dell'episcopato
argentino la domanda troverà risposta. Per il momento si
può solo ipotizzare che i Tisserant, gli Hudal, i Draganovic
non agirono autonomamente ma come parte di una struttura, di un
piano generale della Santa Sede".
L'aiuto più importante venne
però dal regime peronista. È così?
Lo schema che vede il Vaticano e la Croce Rossa come promotori
e J.D.
Perón come esecutore di una politica immigratoria
filonazista va rivisto. La responsabilità della venuta,
per esempio, degli ustascia non si può attribuire
esclusivamente all'Argentina, che li ha ricevuti, o al Vaticano.
Nella partita ci sono altri giocatori. Padre K.S.
Draganovic era stato un agente del controspionaggio
dell'esercito degli Stati Uniti in Austria prima e in Italia poi.
Quindi per chiarire le complicità che permisero ad A.
Pavelic e compagni di approdare sulle rive del Rio
de la Plata occorre guardare non solo all'Italia e all'Argentina
ma al contesto dell'epoca: con la Guerra Fredda, i nemici di ieri
diventano gli alleati di oggi. L'ambasciatore degli Stati Uniti
in Yugoslavia, che era stato incaricato d'affari in Argentina
fino all'elezione di J.D.
Perón, nel '47 va a Washington e tutto fa credere
che ci sia un piano degli Usa e del Vaticano, d'accordo con l'Argentina,
per favorire l'emigrazione degli ustascia e di altri
ricercati".
Il quadro delineato dalla Ceana
è dunque più complesso.
"La stessa definizione di "criminale di guerra"
si dimostra elastica, e non solo nella logica peronista. Prendiamo
il caso di W.
Schreiber, l'infettivologo che dirigeva la sperimentazione
"scientifica" sui prigionieri dei campi di concentramento.
Per posizione gerarchica è difficile non considerarlo responsabile
di lesa umanità, ma non è mai stato formalmente
incriminato. La ragione è che nessuno aveva interesse a
farlo.
Al processo di Norimberga, W.
Schreiber è infatti testimone dell'accusa a
favore dell'Unione Sovietica e più tardi viene utilizzato
dall'Air Force americana come spia. Ora, questo medico può
non avere compiuto personalmente esperimenti su cavie umane, ma
indubbiamente è stato più importante di J.
Mengele, l' "angelo della
morte" di Auschwitz e suo probabile sottoposto. Eppure
J.
Mengele, il pesce piccolo, diventa agli occhi dell'opinione
pubblica il simbolo stesso della degenerazione della medicina
nazista, tanto che i giudici della Repubblica federale ne sollecitano
l'estradizione prima dall'Argentina e poi dal Paraguay; mentre
W.
Schreiber, il pesce grosso, viene lasciato tranquillo
per il resto dei suoi giorni".
Le vere cifre della fuga dall'Europa
Per mezzo secolo, sulla fuga dei nazisti dall'Europa e in Argentina
si sono affastellate le cifre più incredibili, si è
favoleggiato di sommergibili carichi di camerati e di tesori,
si è ipotizzata l'esistenza di una rete di omertà,
chiamata Odessa, per il trafugamento di SS in cerca di
nuova identità: una mitologia ispirata dal favore con cui
il primo peronismo accolse indesiderabili di ogni tipo, ma sottoposta
a critica dalla storiografia più recente. L'avvocato difensore
di E. Priebke
in Argentina, Pedro Bianchi, sostiene
per esempio di essere stato testimone, nella sua qualità
di giovane diplomatico, della consegna da parte di J.D.
Perón di duemila passaporti in bianco (Llorente
e Rigacci, El ultimo nazi, Editorial Sudamericana). Ma Ignacio
Klich e i suoi colleghi della Commissione di indagine hanno
consultato gli archivi del ministero degli Esteri senza trovare
traccia di alcun Bianchi.
Anche sulle ricchezze trasferite dai nazisti circolano fantasiose
ricostruzioni. Il Centro Wiesenthal rivela che ai tempi di J.D.
Perón venticinque tonnellate d'oro marchiate
con la svastica sarebbero state spedite dall'Argentina al Paraguay
per essere vendute. Ma la sola presenza certificata di oro nazista
in Argentina è quella delle monete consegnate dall'ambasciata
del Reich alla legazione svizzera e quindi al governo di Buenos
Aires dopo la rottura dei rapporti diplomatici con l'Asse, avvenuta
nel gennaio del 1944. Di altre transazioni in oro ad esempio tra
Argentina e Portogallo "per riciclare danaro sporco",
cioè proveniente da depredazioni naziste, mancano le prove.
la Repubblica 24.2.2000
Secondo stime ufficiali, dal 1946 al 1955 entreranno in Argentina
circa 66.327 persone di cittadinanza tedesca. Di queste, 51.398
lasceranno il Paese dopo pochi anni, mentre gli altri vi si insedieranno
stabilmente.
Tra il 1947 e il 1955 le autorità per l'emigrazione argentine
registreranno 13.895 ingressi di persone nate in Austria. Di queste,
9.710 ripartiranno poco dopo.
I Volksdeutschen dell'Europa dell'Est – vale a dire gli
appartenenti alle minoranze tedesche stanziate fuori dai confini
della Germania – saranno però registrate secondo il loro
Stato d'origine, falsando così in qualche modo i veri dati
sull'emigrazione di lingua tedesca in Argentina.
Fra coloro che emigreranno in Argentina ci saranno, secondo alcuni
storici, da 300 a 800 funzionari del regime nazista e fascista,
su 50 dei quali pendono imputazioni per crimini di guerra e omicidi
di massa. Un stima piuttosto esigua se si pensa che molti ex nazisti
e collaborazionisti saranno rapidamente sottratti alle statistiche
dell'immigrazione, perché sarà concessa loro quasi
subito la cittadinanza argentina, spesso per intervento diretto
dello stesso J.D.
Peron.
____________________________
ALTO ADIGE, “ELDORADO” DEI CRIMINALI NAZISTI – 1
Pubblicato il 11 Maggio 2016 da CornelioGalas
a cura di Cornelio Galas
“Il tecnico altoatesino Richard Klement,
il meccanico bolzanino Helmut Gregor:
apparentemente semplici cittadini emigrati in Argentina dopo le
devastazioni della seconda guerra mondiale. Ma questi nomi ne
celano altri ben più noti: A.
Eichmann e J.
Mengele.
Sono solo due delle migliaia di nazisti che dopo la sconfitta,
attraverso l’Alto Adige e il porto di Genova, riuscirono a raggiungere
terre più sicure come Spagna, Sudamerica, Medio Oriente.
A.
Eichmann e J.
Mengele si erano avvalsi per la loro fuga oltreoceano
nel 1950 di documenti rilasciati loro in Alto Adige dopo aver
assunto una nuova identità.
Perché il prototipo del “burocrate dello sterminio”
e l” ‘angelo della morte” del lager di Auschwitz-Birkenau cambiarono
identità proprio in Alto Adige?
Ben presto si sarebbe visto che A.
Eichmann e J.
Mengele non erano eccezioni isolate, che anche altri
nazisti e criminali di guerra avevano scelto l’Alto Adige come
via di fuga e che alcuni di loro avevano ottenuto qui nuovi documenti
di identità. Vi sono molte ragioni che spiegano perché
l’Alto Adige divenne il principale nascondiglio dei nazisti. Non
esisteva regione in Europa che potesse reggere il confronto con
questa terra”.
Parte da queste considerazioni lo studio di Gerald
Steinacher (University of Nebraska – Lincoln) che fa luce
sulle “coperture” avute da tanti criminali nazisti in Alto Adige.
Sì, proprio dove si è trovato poi, gran parte del
tesoro trafugato dalla Banca d’Italia,
come abbiamo visto nelle puntate sulla caccia all’oro nazista.
Ma procediamo con ordine.
Nelle settimane che precedettero la fine del conflitto, nel 1945,
l’Alto Adige divenne per fascisti e nazisti, collaboratori e criminali
nazisti di tutta Europa una delle ultime aree verso cui ripiegare.
A fine aprile 1945 il Terzo Reich – se si prescinde da Boemia
e Moravia e dallo Schleswig-Holstein – si era praticamente ristretto
all’arco alpino di Austria occidentale e Alto Adige.
Fuggire nella propagandata “fortezza delle Alpi” significava sottrarsi
un’ultima volta alle armate degli alleati e l’Alto Adige, “terra
di nessuno” fra Germania e Italia, era una meta particolarmente
ambita. Il motivo di ciò risiedeva non da ultimo nella
sua prossimità alla Svizzera e, di conseguenza, nella possibilità
di riparare in un paese neutrale. Fin dalle ultime settimane di
guerra trovarono rifugio fra i monti dell’Alto Adige anche membri
delle alte sfere dell’esercito tedesco e importanti gerarchi nazisti.
Nell’aprile 1945 vi giunsero, in fuga dai bombardamenti, le famiglie
dei gerarchi nazisti che vivevano sull’Obersalzberg nei pressi
di Berchtesgaden, fra cui quella del Reichsleiter M.
Bormann, membro della direzione generale del partito
nazionalsocialista, che non avevano ragione di temere di essere
tradite dalla popolazione filotedesca, oppressa per decenni dal
fascismo italiano.
A Selva di val Gardena trovarono rifugio anche la moglie e la
figlia del capo supremo delle SS H.
Himmler. L’ufficiale della Wehrmacht Edmund
Theil descrive nelle sue memorie come avesse portato di
nascosto da Innsbruck in Alto Adige la famiglia del Gauleiter
del Tirolo Franz Hofer:
“Degli amici altoatesini riuscirono a portare
oltre frontiera i figli ad uno ad uno. [ … ] Quando tutti e otto
i figli di Hofer ebbero raggiunto l’Alto Adige in questo modo,
mi recai con una motocicletta, una vecchia Guzzi che perdeva colpi,
alla “frontiera verde” fra il Tirolo settentrionale e quello meridionale,
attesi la moglie di Franz Hofer, che degli amici dovevano accompagnare
al nostro punto di ritrovo, la feci accomodare sul sedile posteriore
e la portai a Bressanone dai suoi figli, dove fu accolta dall’ex
responsabile nazista della città vescovile, un macellaio
della Hartwiggasse”.
Un dirigente della Banca del Reich,
Maximilian Bernhuber, fautore dell”‘arianizzazione”
dei beni degli ebrei, si nascose a sua volta in un maso altoatesino.
Nell’agosto 1945 venne arrestato in val Pusteria dai carabinieri
e quindi accusato dalla giustizia italiana di vari reati. Da Roma
Maximilian Bernhuber aveva trasferito
le riserve auree dell’Italia in Alto Adige già nell’autunno
1943 e le aveva messe al sicuro nell’antica fortificazione di
Fortezza.
Le unità speciali americane rimasero di stucco – lo abbiamo
visto in precedenti servizi – quando nel maggio 1945 entrarono
nella “fortezza d’oro”.
Nel maggio 1947 fu catturato in Alto Adige lo Sturmbannfilhrer
delle SS Alois Schintlholzer.
Nativo di Innsbruck e famoso pugile, questi aveva aderito già
nel 1932 alla NSDAP, il partito nazista, ed era un esponente
di punta dei nazionalsocialisti tirolesi.
La sua brutalità gli aveva facilitato una rapida carriera
nelle SS: durante il pogrom di Innsbruck
nel novembre 1938 si trovava alla testa di un commando della morte.
In qualità di collaboratore della Gestapo
in Italia aveva partecipato a diverse rappresaglie contro partigiani
e civili. Nel corso di una di queste azioni fu dato alle fiamme
l’intero paese di Caviola e furono trucidate quaranta persone.
Ma quando la fine del Terzo Reich appariva ormai scontata, Alois
Schintlholzer iniziò a prepararsi per il dopoguerra.
Nel gennaio 1945 chiese ai suoi superiori il permesso di accompagnare
i suoi figli in Alto Adige e nell’aprile 1945 si nascose a sua
volta a Merano. La maggior parte dei fuggiaschi nazisti catturati
in Alto Adige si arrese senza difendersi ma alcuni di loro opposero
resistenza. Mario Carità,
a capo della cosiddetta “banda Carità” – una unità
a servizio delle SS e della polizia
di Firenze e Padova, che aveva tratto origine da ex unità
fasciste – si ritirò in Alto Adige con un piccolo bottino,
frutto di saccheggi.
Nel maggio 1945 fu ucciso in uno scontro a fuoco con le forze
dell’esercito americano a Castelrotto. A dispetto di quanto affermato
dalla sua amante, gravemente ferita, secondo cui i figli del comandante
fascista non si trovavano in Alto Adige, due figlie di Mario
Carità furono rintracciate nell’hotel
Bad Ratzes di Siusi.
Finita la guerra, anche alcuni camerati di Mario
Carità si nascosero a Merano. Valide ragioni, del
resto, spiegavano la fuga in Alto Adige del comandante delle SS.
Molti sudtirolesi, infatti, simpatizzarono e collaborarono con
la sua famigerata unità. Fra costoro c’era il gardenese
Dominik Moroder, optante per la Germania,
che frequentò nel 1940 la scuola per leader nazisti di
Sonthofen e nel 1943 quella di Hohenwerfen, dove poté approfondire
la sua “visione del mondo” grazie a un rigoroso programma di corsi.
Tale addestramento aveva lo scopo di prepararlo a ricoprire in
futuro posizioni dirigenziali nel previsto nuovo territorio di
insediamento sudtirolese. In veste di responsabile organizzativo
e successivamente di responsabile del gruppo locale di St. Ulrich
(Ortisei), egli faceva parte dello “zoccolo duro” del nazionalsocialismo
nella sua terra natia.
Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, nell’autunno 1943 fu assegnato
al comando SS di Firenze a “Villa Triste”. Dominik
Moroder ed altri sudtirolesi collaboravano con il gruppo
di Mario Carità per combattere
partigiani e formazioni della resistenza nell’alta Italia. Coloro
che alla fine della guerra trovarono un nascondiglio per il loro
capo a Siusi furono forse uomini delle SS sudtirolesi.
Successivamente Dominik Moroder emigrò
in Argentina, dove fu accolto da altre camicie brune sudtirolesi.
Anche E.
Priebke trovò riparo in Alto Adige: lo Sturmbannfohrer
delle SS era un ufficiale della Gestapo a Roma
e com’è noto nel marzo 1944 fu corresponsabile della "strage
delle Fosse Ardeatine" in cui vennero fucilati per rappresaglia
335 ostaggi. Alla fine della guerra E.
Priebke si nascose in Alto Adige, al pari del suo più
stretto collaboratore, K.
Hass. Nel dicembre 1946 E.
Priebke era a Vipiteno, dove dal 1943 vivevano sua
moglie Alice e i due figli.
In un primo tempo E.
Priebke visse nel timore di essere perseguito dalla
giustizia, “ma lì”, ricordò cinquanta anni dopo
in occasione del suo processo, “nessuno mi ha mai cercato”. E.
Priebke fu aiutato nella ricerca di un’abitazione da
ex camerati delle SS sudtirolesi e fu “ribattezzato”.
La popolazione dell’Alto Adige continuò ad essere ben disposta
verso “i tedeschi” (germanici) anche dopo il 1945.
I soldati e i fuggiaschi in difficoltà dopo la fine della
guerra venivano aiutati volentieri e difficilmente venivano consegnati
alle autorità italiane o alleate. La transizione dal caos
dell’immediato dopoguerra a una certa normalizzazione durò
anni.
Nel dicembre 1945 gli alleati si ritirarono dalle province di
confine del Nord-Italia, fra cui l’Alto Adige, che meno di un
anno dopo la fine delle ostilità si trovò così
ad essere uno dei pochissimi territori di lingua tedesca dell’ex
dominio nazista in Europa libero dal diretto controllo di un governo
militare alleato.
Tenuto conto di queste circostanze, per molti membri delle alte
sfere delle SS, oltre che per tanti funzionari più
piccoli, non era difficile sparire nelle montagne e far perdere
le loro tracce per anni. Alla fine della guerra costoro si nascosero
in particolare nella città termale di Merano, trovando
rifugio, per lo più sotto falso nome, in case private,
ospedali, sanatori, nei masi e nelle malghe circostanti.
Nel maggio 1945 fu arrestato a Merano, da ufficiali americani,
il personale dell’ambasciata germanica retta dal plenipotenziario
del Reich in Italia, R.
von Rahn, e dall’ex capo dell’Ufficio personale del
ministero degli Affari esteri, Hans Schroder.
Merano rappresentava un rifugio sicuro per i diplomatici nazisti.
Nell’aprile 1945 vi giunse anche Dietrich
von Jagow, ex ambasciatore tedesco in Ungheria, insieme
a un gruppo di diplomatici tedeschi provenienti dall’Ungheria.
In tutta evidenza costoro si erano rifugiati in Alto Adige al
seguito del barone Gabor di Kemeny,
ministro degli Esteri ungherese nel governo fascista di Szàlasi.
Poco prima dell’arrivo delle truppe americane Dietrich
von Jagow si suicidò in una camera d’albergo. Nell’aprile
1945 Merano fu inondata da dozzine di francesi del regime di Vichy.
Fra costoro si trovavano i più noti collaborazionisti francesi:
il primo ministro Pierre Laval, il
ministro della Propaganda Jean Luchaire,
i capi del partito Marcel Déat
e Marcel Bucard, i principali collaboratori
di Jacques Doriot, il comandante
di forze paramilitari André Besson-Rapp
e il comandante della milizia e ministro della polizia di Vichy,
Joseph Darnand.
Alcuni furono arrestati dagli americani, altri riuscirono a far
perdere le loro tracce. Nell’aprile 1945 presero alloggio nell’albergo
meranese Castel Rundegg perfino dei diplomatici giapponesi. Il
particolare ruolo avuto da Merano come roccaforte nazista – Eldorado
dei collaborazionisti – era noto a molti negli anni del dopoguerra.
I giornali dell’epoca scrivevano: “Merano,
è noto a tutti, è una specie di “Eldorado” per i
pezzi grossi e meno grossi compromessi nelle vicende successive
al 1943”.
L’ltalia era diventata un porto di mare per decine di migliaia
di “relitti” della guerra. Nel 1947 il quotidiano «Alto
Adige» così scriveva: “Tra
le regioni maggiormente sature è da porsi in primo luogo
l’Alto Adige ed in particolare Merano, ove la massa concentrata
e solo in parte censita [di ex nazisti e collaborazionisti]
è davvero notevole”. Molti, in un primo tempo, rimasero
appartati e vissero delle risorse accumulate negli anni del dominio
nazifascista.
Ma quando i soldi finirono, solo pochi riuscirono a trovare un
lavoro e reinserirsi nella società civile. Diversi di loro,
stranieri illegali, scivolarono in giri criminali e cominciarono
a guadagnarsi la vita con lo sfruttamento della prostituzione,
lo spaccio di droga, il contrabbando di valuta e di “merce umana”
e la falsificazione di banconote.
“Sono assai spesso stranieri che non hanno
troppo da perdere e che impegnano poco di sé e della propria
reputazione”, osservava la stampa locale. Nel maggio 1947
il quotidiano «Alto Adige» pubblicò un articolo
dai toni alquanto rassegnati:
“Il nostro giornale ha scritto fino alla
noia che l’Alto Adige, nel dopoguerra, è stato l’Eldorado
dei nazi-fascisti, che costà trovarono in ogni tempo larga,
compiacente ospitalità. Ora, se pure la mala genia si è
un po’ diradata, i casi di criminali di guerra e collaboratori
dei fascisti e dei tedeschi comodamente installati a Bolzano,
sono ancora numerosi”.
La moglie e il figlio di J.
Mengele si stabilirono a loro volta a Merano nel 1962.
J.
Mengele affidò la sua famiglia a persone di
Merano che in passato lo avevano aiutato a fuggire. Il fratello
di J.
Mengele, Alois Mengele,
aprì nel 1969 a Merano una filiale dell’azienda familiare
di Günzburg che produceva macchine agricole.
La nascita della filiale meranese “Mengele
e Steiner Srl” rappresentava evidentemente una garanzia
finanziaria per Martha Mengele e
il figlio di primo letto Karl Heinz.
Anche nel dopoguerra nelle località altoatesine era dato
osservare un rapporto estremamente disinvolto con ex alti gerarchi
nazisti.
Dopo il 1945 K.
Wolff, l’ex comandante supremo delle SS e
della polizia in Italia, trascorse le sue vacanze per anni nel
comune altoatesino di Appiano, nei pressi di Bolzano. A San Michele-Appiano
fu perfino festeggiato e onorato dall’ufficio del turismo locale
per la sua fedeltà alla località turistica.
Se a guerra conclusa era praticamente impossibile fuggire oltreoceano,
a partire dal 1946 la situazione evolse rapidamente. Il modo più
semplice e rapido per imbarcarsi per le Americhe provenendo dall’Europa
centrale era attraverso il porto di Genova, transitando per l’Alto
Adige. E tale fu l’itinerario scelto dalla maggior parte dei membri
delle SS e dei nazisti in fuga.
Esistevano a dire il vero anche altre vie di fuga, ad esempio
i due crocevia di Svizzera e Spagna, che migliaia di criminali
nazisti riuscirono a raggiungere fra il 1943 e il 1947. Tuttavia,
a partire dal 1946 l’Italia divenne la via di fuga più
frequentata, a causa delle rapide vie di collegamento tra l’Europa
centro-orientale e i porti di Genova e Trieste.
L’Italia era dunque una tappa obbligata per tutti coloro che volevano
emigrare oltreoceano. La Germania e l’Austria erano controllate
dalle quattro potenze alleate, la Jugoslavia era governata dai
comunisti di Tito. Rispetto alle
vie che attraversavano questi Paesi, quella che passava per l’Italia
era più breve e presentava molti meno ostacoli burocratici.
L’ltalia quindi divenne rapidamente il crocevia di un ingente
flusso di profughi e una via di fuga relativamente sicura anche
per i criminali di guerra. Al termine della guerra in Italia c’erano
centinaia di migliaia di profughi e deportati dall’Europa centro-orientale,
il cui destino non è stato finora oggetto di ricerche esaustive.
Il desiderio di fuga non accomunava solo nazisti e criminali di
guerra braccati dalle forze dell’ordine dei governi democratici
ma anche profughi provenienti dai territori orientali del Reich,
collaborazionisti e anticomunisti dei Paesi europei occupati dall’
Armata Rossa, disertori, prigionieri di guerra, lavoratori coatti,
deportati, soldati e, per finire, reduci dei campi di concentramento
e di sterminio.
Inoltre, diverse organizzazioni clandestine ebraiche approfittarono
della situazione per portare molti sopravvissuti all’Olocausto
in Palestina, nonostante il blocco marittimo deciso dalla Gran
Bretagna. E, anche per loro, il punto di partenza per una navigazione
dalle molte incognite era l’Italia.
Sul solo territorio dell’Austria risorta si stima ci fossero,
nella primavera del 1945, 1,5 milioni di stranieri.
Le massicce dimensioni del fenomeno rendevano impossibili i controlli;
inoltre le autorità italiane avevano poco o punto interesse
a trattenere a lungo persone indesiderate. I membri delle SS
e i criminali di guerra si mimetizzavano nella massa dei profughi.
Il pericolo di essere scoperti si riduceva di mese in mese. Il
31 dicembre 1945 venne sciolto il governo militare alleato in
Italia e la negligenza nei controlli aumentò ulteriormente.
Nel 1947, siglato il Trattato di pace fra gli alleati
e l’Italia, i controlli da parte degli anglo-americani cessarono
del tutto.
Le autorità italiane non riuscivano a fronteggiare la situazione,
le condizioni di sicurezza erano desolanti. Le vie di fuga erano
note: nel caso di Josef Schwammberger,
il comandante del campo di lavoro di Przemy’sl, la direzione federale
della polizia di Innsbruck comunicò nel 1945 che probabilmente
il ricercato, “al pari di un’alta percentuale
di ex SS in fuga, era fuggito in Sudamerica (Argentina) via Bolzano-Genova”.
Il confine del Brennero e le locali condizioni politiche e sociali
acquistarono così un’importanza particolare: proprio in
Alto Adige molti membri delle SS e criminali di guerra
trovavano condizioni a dir poco ideali. L’Alto Adige era la prima
tappa in territorio italiano per coloro che passavano il confine
illegalmente.
In particolare i profughi e i fuggiaschi di lingua tedesca erano
accolti per lo più con gentilezza da chi viveva nelle vallate
alpine dell’ Alto Adige. Karl Schedereit,
nato nel 1925 e soldato delle Waffen-SS, assunse alla
fine della guerra un’identità fittizia, quella del caporale
della Wehrmacht Robert Karrasch.
Al termine del conflitto riuscì a fuggire dal campo di
prigionia in cui era rinchiuso e si diresse verso l’Alto Adige
con la speranza di raggiungere Genova e imbarcarsi per l’Argentina.
Voleva lasciarsi alle spalle l’Europa sconfitta, la sua Heimat
ormai inglobata dalla Polonia e cominciare una nuova vita. Valicato
il Passo Resia riparò a Merano e da lì proseguì
per Roma, dove grazie all’aiuto di terzi riuscì a ottenere
i documenti necessari per il viaggio. Ma alla fine cambiò
idea, decise di non emigrare e di restare in Alto Adige.
Robert Karrasch, che in Austria era
mal visto in quanto “Reichsdeutsche” e rischiava continuamente
di essere arrestato, in Alto Adige, proprio perché tedesco,
poteva contare sulla solidarietà della popolazione autoctona.
Di ciò non vi è miglior testimonianza del modo in
cui Karl Schedereit alias Robert
Karrasch ha valicato il Passo Resia.
Ecco il racconto di questo importante momento della sua autobiografia:
“Giunto a Resia, località a ridosso
del confine, Karrasch passò davanti a una caserma dei carabinieri,
da cui filtrava luce all’esterno e si udiva un brusio di voci,
e proseguì nella notte fino al paese di Curon Venosta di
cui si scorgevano le luci in lontananza. L’osteria era piena di
uomini vestiti di scuro, assiepati attorno al bancone di legno.
Portavano tutti un cappello in testa
e bevevano vino rosso, fumavano sigarette e pipe. Karrasch si
mise in cerca di un sorriso rassicurante. ”Il mio accento mi tradirà”,
pensò. L’oste, un tipo incanutito dall’aria gentile, gli
andò incontro tenendo in mano un bicchiere di vino per
lui: “Ha superato il confine, eh? Non abbia paura, giovanotto,
qui di italiani non ce ne sono, siamo tutti tedeschi. Salute!”
Fra coloro che riuscirono a raggiungere l’Argentina passando per
l’Italia ci fu l’ufficiale nazista R.
Kopps, agente della sezione informazioni, spionaggio
e controspionaggio nello Stato Maggiore di un’unità dell’esercito
tedesco. Dopo la sua fuga in Alto Adige attraverso i monti venne
generosamente aiutato:
“Non tardai ad accorgermi che non occorreva
dare spiegazioni a queste persone. Chi all’epoca giungeva da lassù
era un profugo e dunque andava aiutato. Nessuno faceva domande
superflue, tutti fornivano brevi indicazioni concrete, e poi ad
esempio aggiungevano: “sull’altro lato della strada, a circa 100
metri di distanza, c’è una caserma dei carabinieri. Conviene
non farsi notare nel passarci davanti.”
R. Kopps
raggiunse infine Merano, dove disponeva di un indirizzo sicuro
e dove, “vestito da sudtirolese”, assaporò un’ottima cena
prima di giungere alla sua vera destinazione, il rifugio sicuro
presso “zia Anna”. La locanda meranese
gestita dall’inquietante “zia Anna” accolse e nascose più
volte membri delle SS, nazisti e criminali di guerra
in fuga, fra cui anche il medico austriaco delle SS Emil
Gelny che in seguito riuscì a quanto pare a riparare
in Siria.
Emil Gelny era il principale responsabile
del programma di eutanasia su esseri umani nelle strutture di
Gugging e Mauer-Öhling in Austria. R.
Kopps, alias Hans Maler,
poteva perciò sentirsi al sicuro. Dopo aver trascorso parecchi
mesi nella locanda di “zia Anna”
R. Kopps
si rimise in viaggio e raggiunse Genova da dove, ottenuti i documenti
necessari, salpò per Buenos Aires.
Un ex SS tedesco affermò euforico, una volta passato
il confine con l’Alto Adige: “L’Italia dopo
la guerra [era] la terra d’elezione per coloro che appartenevano
a organizzazioni criminali. Come cambiano i tempi!”.
Non sempre, però, le cose filarono così lisce. Nell’aprile
del 1947 Gerhard Bast, ex capo della
Gestapo di Linz in Austria superiore, venne ucciso sul
confine del Brennero fra Italia e Austria dalla guida che lo stava
accompagnando. Lo SS-Sturmbannfohrer era ricercato dagli
americani che erano sulle sue tracce fin dal 1946. Perciò,
nell’autunno di quell’anno, era fuggito nella parte altoatesina
della val Pusteria, dove aveva trovato lavoro e alloggio come
bracciante agricolo.
Il caso di Gerhard Bast, nonostante
l’epilogo, rimane esemplificativo di come dopo il 1945 l’Alto
Adige offrisse alle ex SS un riparo sicuro e l’opportunità
di organizzare la propria fuga verso il Sudamerica. Queste sono
le parole usate al riguardo da suo figlio Martin
Pollack:
“Suppongo che sia andato in Alto Adige perché
pensava che lì sarebbe stato al sicuro (non a torto) e
perché la regione rappresentava, per così dire,
una prima tappa per raggiungere la sua destinazione finale oltreoceano.
[…] Dalla sua c’era anche il fatto che conosceva molto bene tante
parti di quel territorio, avendoci trascorso dei brevi periodi
in passato.
È probabile che conoscesse
anche molta gente e che avesse amici fra gli amanti della montagna,
i gestori di rifugi, eccetera. Tutta gente che avrebbe potuto
dargli una mano. Naturalmente anche qualche ex nazista, ma di
quelli se ne trovavano dappertutto … “.
Le guide non guardavano troppo per il sottile e non facevano distinzioni:
fra i loro clienti non c’erano solo criminali tedeschi la cui
destinazione ultima era il Sudamerica, ma spesso anche ebrei che,
a loro volta in maniera illegale, erano diretti in Palestina.
Una cinica fatalità volle che spesso lungo gli itinerari
di fuga alpini le strade dei criminali nazisti ricercati si incrociassero
con quelle delle loro vittime intenzionate a emigrare in Palestina.
A questo proposito, Simon Wiesenthal
scrive: “Conosco una piccola locanda presso
Merano, in Alto Adige, dove capitò che clandestini nazisti
ed ebrei passassero insieme la notte senza sapere gli uni degli
altri. Gli ebrei venivano nascosti al piano superiore e veniva
detto loro di non muoversi, mentre ai nazisti, sistemati al pianterreno,
veniva raccomandato di non uscire di camera”.
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Giornali
e giornalisti
1945 - APRILE
[Torino]
direttore:
. Concetto Pettinato.
Subito dopo la liberazione, il giornale sospende le pubblicazioni.
«La Repubblica Fascista»
1943 set - apr 1945,
direttore:
. Carlo Borsani.
«Vent'anni»
[settimanale fascista di Torino]
direttore:
. Guido Pallotta, vice-segretario nazionale
dei GUF.
[periodico
di Albenga]
direttore:
. ?,
[Torino]
condirettore:
. Ather Capelli.
[Genova]
direttore:
.
[Milano]
direttore:
1943 set - apr 1945
. Ermanno Amicucci.
«Il Giorno»
direttore:
. Italo Pietra.
«Critica Sociale»
«segue da 1918»
1945, riprende le pubblicazioni con periodicità mensile sotto la
direzione di U.G. Mondolfo e con indirizzo
socialdemocratico.
«Il Popolo d'Italia»
«segue da 1943»
direttore:
.
«L'Arena»
[Verona]
direttore:
. Giuseppe Castelletti.
[Trieste]
direttore:
.
[Modena]
direttore:
.
«Il Resto del Carlino»
[Bologna]
direttore:
. Giorgio Pini, poi sottosegretario
agli Interni;
il giornale viene posto sotto sequestro e per un breve periodo è
autogestito da una cooperativa di redattori che pubblicano il «Giornale
dell'Emilia»;
«La Nazione»
[Firenze]
direttore:
. Mirko Giobbe.
«Rivoluzione»
[organo del GUF di Firenze]
direttore:
. Guido Giglioli.
«Il Telegrafo»
«segue da 1922»
Gennaio
28, viene sostituito da «Il Tirreno»;
«segue 1955»
[Roma]
direttore:
. R. Manzini (1927-59).
[Roma]
Giugno
4, cessa le pubblicazioni.
direttore:
.
[Edizione romana]
direttore:
.
«La Voce Repubblicana»
direttore:
.
il 10 giugno 1944 ha ripreso le pubblicazioni in modo regolare con
una tiratura di 20.000 copie;
«Il Popolo»
(organo ufficiale della Dc)
direttore:
. G. Gonella;
nei primi mesi, con un'area di diffusione limitata quasi esclusivamente
alla capitale, ha una tiratura di 23.000 copie;
«Il Tempo»
[Roma]
direttore:
. R. Angiolillo;
condirettore:
. L. Repaci;
dopo un'iniziale apertura di tipo socialdemocratico, nel giro di
pochi mesi il foglio si sposta su posizioni moderate, guardando
ad un pubblico di lettori del ceto medio del centro-sud: ciò determina
l'uscita dal giornale di L. Repaci.
«L'Ora»
[organo ufficiale del FUA (Fronte unico anticomunista)]
[Roma]
direttore:
.
[mensile dell'Unione italiana per il Rinnovamento sociale]
[Roma (dal n. 4)]
direttore:
. P.
Togliatti [Ercoli];
diretto e curato personalmente dal leader del Pci, mira a
fornire ai militanti una guida ideologica.
direttore:
.
ritornato legale nel giugno 1944, ha 4 edizioni con proprie redazioni
e tipografie: a Roma, Milano, Torino e Genova;
nel quadro del partito "nuovo" concepito da P.
Togliatti [Ercoli] il giornale
si afferma con caratteri suoi originali nel panorama della stampa
italiana tentando la strada inedita di un quotidiano contemporaneamente
di partito e di massa, di orientamento e di informazione;
«La Nazione
del Popolo»
organo del Ctln (Comitato toscano di liberazione
nazionale), i cui propietari sono i cinque partiti dello stesso
Ctln.
[dovrebbe passare ai democristiani e ai liberali, che dopo pochi
giorni cambiano la testata in «Giornale del Mattino»,
ma all'ultimo momento passa alla Dc]
«La Patria»
dei liberali e dell'esercito, cesserà le pubblicazioni.
[organo clandestino del Psiup]
. E. Colorni (1943 lug-1944);
«L'Uomo Qualunque»
[rivista settimanale]
1945-46, le 80.000 copie iniziali raggiungono il numero di 700-800.000;
lo straordinario successo si basa soprattutto sul consenso ottenuto
presso i ceti medi impiegatizi e professionali della capitale e
la piccola borghesia rurale del mezzogiorno che si riconoscono sempre
più negli attacchi sempre più aspri e triviali scagliati da Guglielmo
Giannini contro:
- lo stato parlamentare,
- l'antifascismo militante,
- il "ciellenismo",
- il Pci,
oppure contro gli intellettuali "i visi pallidi" e il
clero progressista;
elogiando lo stato amministrativo e prendendo le difese dell' "uomo
della strada" oppresso e prevaricato dall'esosità fiscale e
dalle ideologie dei politicanti, mette sullo stesso piano fascismo
e antifascismo;
la rivista trova lettori e consensi presso quelle classi che hanno
costituito la principale base sociale del regime fascista;
la polemica di Guglielmo Giannini si
dirige sempre contro la politica come processo di trasformazione
della società e contro i partiti politici di massa;
dopo molte perplessità egli decide di affiancare alla rivista un
movimento (non più un partito di élites) di massa moderato,
capace di assorbire anche l'opinione di vasti settori cattolici;
«La Critica»
«segue da 1925»
1945, inizia la serie dei «Quaderni della critica»;
«segue 1952»
«Risorgimento»
[mensile comunista edito da Einaudi]
direttore:
. Carlo Salinari (Pci);
Aprile
15, sul primo numero, dopo la Presentazione,
il primo articolo dal titolo L'Italia e la democrazia reca
la firma di Luigi Sturzo; seguono:
. P. Treves,
. U. Massola,
. E. Lussu,
. U. Saba,
. N. Sapegno,
. A. Moravia,
. F. d'Amico.
[Tipico questo concerto di autori, per un panorama della politica
di "apertura" del Pci in campo culturale.
Questo mensile durerà poco, da aprile ad agosto.]
Repubblica di Caulonia
«segue da marzo 1945»
1945
Aprile
13, l'ex sindaco di Caulonia P.
Cavallaro viene arrestato dai carabinieri;
poche ore dopo scatta un capillare rastrellamento, pianificato da giorni,
con l'impiego di oltre seicento carabinieri; l'operazione si conclude
con 387 fermi, numerosi feriti tra i contadini e il sequestro di una parte
dell'arsenale clandestino;
«segue giugno 1947» |