Il titolo attribuitogli da Yagael
Yadin († 1983),
Meghillat ham-Miqdash, "Rotolo
del Tempio", non è particolarmente felice perché,
se è vero che esso descrive la struttura topografica e architettonica
del tempio gerosolimitano e alcune norme di santità e purità
per l'accesso e la gestione, il rotolo si allarga in una vera e
propria "summa theologica" del giudaismo antico. Vivian
organizza il testo in 21 sezioni tematiche, un intero alfabeto di
prescrizioni e norme che toccano:
- l'alleanza con Dio,
- gli arredi sacri e il santuario,
- il ciclo festivo,
- i cortili del tempio con gli edifici annessi,
- le impurità che bloccano l'accesso all'area templare,
- gli stabili esterni al santuario,
- le regole di purità e santità rituale,
- le magistrature,
- l'apostasia e l'idolatria,
- i tribunali,
- il re e la guerra,
- il sostentamento del clero,
- la magia e la profezia,
- la testimonianza processuale,
- la legge marziale,
- l'omicidio impunito,
- il diritto matrimoniale e familiare,
- la crocifissione,
- leggi varie,
- cause matrimoniali,
- matrimoni vietati e incesto.
La sequenza, accuratamente commentata da Vivian
con un'analisi di quasi 160 pagine e introdotta da ben 23 pagine
di fitta bibliografia, si presenta con evidenti riprese e con
una trama non lineare (la prima colonna manca, mentre dopo l'ultima
il "Rotolo del Tempio" prosegue con un'altra colonna perduta).
È possibile, però, individuare due costanti:
- La prima costante è nell'uso sistematico della
Bibbia. Già le prime righe sono la citazione di
Esodo 34, 10b ("poiché terribile è quanto io
sto per fare con te. Ecco, io sto per scacciare davanti a te l'Amorreo,
il Cananeo, l'Ittita, il Gergeseo, il Perizzita, l'Eveo e il Gebuseo").
Uno studioso, G. Brin, giustamente
osserva che il testo è un mosaico le cui tessere sono citazioni
anticotestamentarie.
- La seconda costante corre all'interno di alcuni temi
che in pratica determinano una filigrana ideologica. C'è
innanzitutto il tempo sacro regolato dal calendario liturgico,
di cui Vivian disegna in appendice
l'intera mappa (pagine 239-249). In esso appaiono feste altrimenti
ignote come quelle delle ordinazioni sacerdotali, del vino e dell'
olio, del legno, mentre altre solennità classiche acquistano
connotazioni inedite (la pentecoste è la festa della "nuova
oblazione" delle primizie di frumento e del "lievito nuovo").
C'è poi lo spazio sacro centrato sul tempio, tratteggiato
minuziosamente nella sua planimetria: c'è persino l'attenzione
ai forni, alle stufe e ai servizi igienici e appare anche un edificio
della "scala a chiocciola"... Ma soprattutto è la gestione
dell'area sacra a interessare l'autore, il quale elenca una serie
di filtri sacrali progressivi (J. Maier
ne ha individuati ben undici ) che regolamentano l'accesso.
C'è, infine, la società, distinta in due livelli
differenziati, quello del re (che dev'essere monogamo, che è
protetto da ben 12.000 guardie del corpo ma che dipende dagli
oracoli del sommo sacerdote per la politica militare) e quello
del popolo. Per quest'ultimo il "Rotolo del Tempio" cerca fieramente
di esorcizzare il rischio di sincretismo religioso, culturale
e politico.
Si tratta, quindi, di una comunità a tendenza integralistica
che si difende con rigore, anche attraverso il deterrente delle
pene. Significativa al riguardo è la colonna 64 con le
norme sulla crocifissione: "Nel caso che vi sia un uomo che fa
la spia ai danni del suo popolo o che tradisce il suo popolo a
favore di un popolo gentile e straniero o che comunque danneggia
gl'interessi del suo popolo, appendilo al legno e muoia. Però
sia condannato a morte in base alla deposizione di due testimoni,
o meglio ancora sulla deposizione di tre testimoni. Saranno loro
ad appenderlo al legno...".
Usato e applicato dai "monaci" di Qumran, il "Rotolo del Tempio"
è però anteriore ed esterno a essi e può
essere collocato nelle sue origini forse già nel VI sec.
a.C., dato che lo statuto del re sembra riflettere l'epoca esilica.
La redazione attuale sembra però essere del II sec. a.C.;
le citazioni e le allusioni bibliche rendono l'ebraico usato dall'autore
di sapore arcaizzante.
C'è un fenomeno curioso da rilevare. L'esame paleografico
rivela che il testo del "Rotolo del Tempio" è stato steso
da due mani diverse: la prima ha operato sulle prime colonne (dalla
seconda alla quinta) e offre una scrittura di tipo erodiano tardo,
la seconda (dalla sesta alla sessantaseiesima colonna) è
più antica perché ricalca l'erodiano ornamentale
medio (fine I sec. a.C. - inizio I sec. d.C.). Siamo di fronte
a due manoscritti differenti cuciti insieme? O l'usura della pelle
d'apertura ha convinto a far riscrivere l'inizio? Certo è
che questo sorprendente testo emerso in modo rocambolesco dallo
"scrigno" secolare di Qumran racchiude in sé ancora molti
segreti, tant'è vero che uno dei piu' raffinati qumranologi,
L. H. Schiffman, ha intitolato il
capitolo dedicato al rotolo all'interno del suo studio fondamentale
sulla legislazione qumranica con un lapidario "L'enigma del Rotolo
del Tempio".
[Rotolo del Tempio, a cura di Angelo
Vivian, Paideia Editrice, Brescia].
«segue
1991»
1977. il Rotolo del Tempio [o Rotolo di
Isaia] suscita una miriade di studi.
L'opera si presenta come un vero e proprio libro biblico, di cui,
però, non è rimasta traccia nelle nostre Bibbie,
che si aprono tutte con quel blocco di cinque libri, da Genesi
a Deuteronomio, che costituisce per antonomasia la documentazione
scritta della Legge rivelata a Mosè sul Sinai: il Pentateuco.
Il problema è sapere se questo sesto libro, un nuovo Deuteronomio,
presentato come parola diretta di Dio, fosse il Libro della
Torah della sola comunità di Qumran, o se esso non
fosse, piuttosto, parte integrante di una versione 'completa'
del Pentateuco, quale circolava in Palestina, a partire
almeno dal secondo secolo a.C.. Non si tratta di un fenomeno isolato.
Sempre a Qumran sono venuti alla luce altri manoscritti, più
frammentari e danneggiati che presentano il testo biblico con
modifiche tali da rendere legittima la domanda se si tratti di
una forma sinora sconosciuta della Bibbia o non piuttosto di rifacimenti
parafrastici arricchiti di quegli elementi che un'intensa vita
spirituale non poteva non travasare nella 'parola di Dio'.
Diamo qui due esempi.
– Il primo è tratto proprio dal Rotolo del Tempio,
là dove si riprende un tema che è sempre attuale
e che nella Bibbia normale è discusso in Deuteronomio
16, 18-20: "Ti costituirai giudici e scribi in tutte le citta'
che il Signore tuo Dio ti dà, tribù per tribù;
essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze. Non farai violenza
al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali,
perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe
le parole dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai,
per poter vivere e possedere il paese che il Signore tuo Dio sta
per darti".
Nel Rotolo del Tempio (colonna 51, linee 11ss.) gli stessi
concetti sono così formulati: "Porrai in tutte le tue
città giudici e magistrati che giudichino il popolo / con
giudizio giusto, che non facciano distinzioni fra le persone nel
giudizio, che non accettino subornazione / e non sviino il giudizio
giusto, perché la subornazione svia il giudizio, vizia
le parole del giusto, acceca / gli occhi dei saggi, commette una
grave offesa e profana la Casa (= il tempio) con l'iniquità
/ del peccato. Segui soltanto la giustizia per vivere ed entrare
e prendere possesso / della terra che io vi do per possederla
per sempre. Colui / che accetti subornazione e svii il giudizio
giusto, morirà e non avrete timore di / giustiziarlo".
Come si vede - a parte le differenze lessicali, che sono in buona
parte imputabili alle scelte dei traduttori -, nel secondo testo
si insiste con maggior vigore sul tema delle bustarelle. Il secondo
esempio è fornito da un manoscritto, che fino a qualche
anno fa veniva chiamato Parafrasi del Pentateuco e che
ora viene designato come Pentateuco riscritto. Uno dei
frammenti di questo manoscritto (4Q365 fr. 6a+c) si apre con sei
linee di testo, purtroppo molto danneggiate, che con ogni probabilità
colmavano una lacuna del nostro testo biblico. Nel capitolo 15
dell'Esodo si legge, nella prima parte, il Canto di
vittoria con cui Mosè
celebrò il passaggio miracoloso del Mar Rosso. Ai versetti
20-21 si aggiunge: "Allora Maria, la profetessa, sorella di
Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne
con i timpani, formando cori di danze. Maria fece loro cantare
il ritornello: 'Cantate al Signore perché ha mirabilmente
trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere' ". Così
nella traduzione della Conferenza Episcopale Italiana.
Ma in ebraico non si parla affatto di 'ritornelli'; si dice semplicemente
che Maria 'replicò' (ma si
potrebbe anche tradurre: intonò) loro: "Cantate al Signore,
ecc.". Dal che ci si aspetterebbe di seguito ben più
di un ritornello: come c'era un cantico di Mosè, così
ve n'era uno di Maria, esattamente
quello che il frammento di Qumran lascia, purtroppo, solo intuire.
Come faceva notare Sidnie A. White
al Congresso di Madrid, nel marzo del 1991, comunque si vogliano
designare questi testi, è certo che a Qumran non esisteva
il concetto stesso di 'testo canonico': i libri biblici non erano
considerati un qualcosa di chiuso, definitivo, ma un messaggio
sempre passibile di aggiornamenti. La questione, riguarda anche
il mondo cristiano dei primi secoli. Non sono rari i casi in cui
un Padre della Chiesa cita la Scrittura in una lezione difforme
da quella ora 'canonica'. San Giustino,
a esempio, nella sua prima Apologia (52, 5-6) riporta un
passo del profeta Ezechiele sulla
resurrezione dei morti in questa forma: "Giuntura si unirà
a giuntura, osso a osso, e le carni ricresceranno", ma questo
versetto non si trova nell'Ezechiele canonico, che ha solo:
"(Sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa), che
si accostavano l'uno all' ltro, ciascuno al suo corrispondente"
(37, 7). Si trova, invece, quasi per intero in due frammenti della
quarta grotta di Qumran (4Q385 e 386), che sono stati battezzati
come Pseudo-Ezechiele: "Figlio dell'uomo, profetizza
sulle ossa e dì: Si unisca ciascun osso al suo osso e ciascuna
giuntura alla sua giuntura. E così fu". È ben
evidente che questo Ezechiele non era affatto pseudo, per
il buon Giustino. E se non lo era
per lui (come non lo sarà per Tertulliano),
perché mai dovrebbe esserlo per noi? La conclusione storicamente
più sensata sarebbe dire che fino a una certa epoca il
testo del profeta biblico circolava in versioni diverse, ma che
tutte queste versioni erano considerate 'buone'. Certo che così
facendo dobbiamo mettere in discussione qualche nostra certezza,
questa sì più o meno pseudo. Ma è meglio
cambiar titolo a un testo, per evitarci ogni problema, o cominciare
a ripensare per bene la storia passata?
Elisha Qimron, The Temple Scroll.
A Critical Edition with Extensive Reconstructions. Bibliography
by Florentino Garcia Martinez", Ben Gurion University of the Negev
Press - Israel Exploration Society, Beer Sheva - Jerusalem 1996,
pagg. 124.
1998 Agosto Gianfranco Ravasi
[…] un rotolo membranaceo approntato con 17 pelli cucite insieme
così da comporre una pergamena lunga 7 metri, alta 20 centimetri,
convenzionalmente indicata con la sigla 1QIsa. Su di essa in 54
colonne di 29 righe ciascuna si snodava il testo del profeta Isaia
in una copia, eseguita da quella comunità nel I sec. a.C.
È questa la testimonianza testuale più antica di un libro
biblico che anche Cristo amò, leggendolo e commentandolo un giorno
nella scalcinata sinagoga del suo villaggio, Nazaret, sollecitando
reazioni scandalizzate e persino violente (Luca 4, 16-30).
Molti sanno anche che in verità questo testo biblico rivela inchiostri
di diverso colore, cioè, fuor di metafora, autori differenti tanto
è vero che si potrebbe parlare di Isaia come di un profeta che
visse due secoli. Infatti, se nei primi 39 capitoli si ha una
cornice storica entro cui agiscono personaggi dell'VIII sec. a.C.
- l'epoca appunto in cui visse Isaia -, nei capitoli 40-55 entra
in scena il persiano Ciro del VI sec. a.C.: si suppone, allora,
uno scrittore anonimo di quel periodo coincidente con il ritorno
di Israele dall'esilio babilonese.
I capitoli finali, dal 56 al 66, rimandano a una fase storica
successiva e a un terzo Isaia non meglio identificato. Tuttavia
l'acribia degli esegeti, che hanno assediato il testo isaiano
in tutte le sue iridescenze stilistico-tematiche, non si è accontetata
di questa grossolana ripartizione e ha identificato non solo strati
e mani diverse nei singoli blocchi, soprattutto nel primo, quello
dell'Isaia classico, ma ha anche isolato interventi redazionali
più tardi di vario spessore e orientamento ermeneutico. Interessante
in questo senso è il commento più che collaudato (l'originale
tedesco è apparso per la prima volta agli inizi degli anni '60
e fu ripetutamente edito e rielaborato) di uno dei maggiori anticotestamentaristi
tedeschi, Otto Kaiser, ora tradotto
in italiano sulla base della quinta edizione originale (1981).
Esso prende in esame i primi dodici capitoli che sono tra i più
celebri e celebrati del profeta perché in essi, oltre al racconto
teofanico della sua vocazione - ripreso in un oratorio in 7 parti
degli anni '30 dal musicista svizzero Willy
Burkhard (1900-1955) col titolo Das Gesicht Isaias,
"la visione di Isaia", si incontra il cosiddetto "libro dell'Emanuele"
che ha per protagonista una figura variamente identificata dall'esegesi
ma alonata di luce messianica nell'interpretazione tradizionale
soprattutto cristiana. Ebbene, particolarmente significativo è
lo scavo che Kaiser conduce su una
parte consistente di questi capitoli, su quello che è talora chiamato
"il memoriale di Isaia" (6,1-9,6). La sua analisi non si accontenta
di delineare le coordinate storiche (siamo al tempo della "guerra
siro-eframitica", cioè negli anni 734/3-733/2 a.C., con un inedito
asse Samaria-Damasco contro Gerusalemme), le strutture delle unità
letterarie, i dati e i temi per altro di alto rilievo. L'originalità
del suo vaglio sta nell'isolare gli indizi, non di rado microscopici,
della redazione finale dei materiali isaiani. Essa avviene in
epoca post-esilica e rivela tonalità storicizzanti, spesso di
grande intensità: per lo studioso tedesco il famoso inno del capitolo
9 ("Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce..."),
che nelle nostre orecchie risuona spontaneamente collegato a melodie
natalizie, è frutto di "associazioni di cantori del secondo tempio,
tra i quali doveva essersi mantenuto vivo il ricordo della liturgia
regale guidaica" (p. 286). Saremmo, dunque, distanti ben tre secoli
da Isaia, forse al tempo di Neemia nella seconda metà del V sec.
a.C. L'annunzio recente di speranza sarebbe, perciò, rivestito
con una patina di antichità, sarebbe appunto "storicizzato" e
lo stesso fenomeno si ripeterebbe nella rielaborazione della figura
del re-Emmanuele (in ebraico "Dio-con-noi"). "Lo stile oracolare
(di quella pagina, il c. 7) - scrive Kaiser
- intende dare un'impressione di antichità al proprio annunzio
di epoca posteriore, e renderlo più credibile nella sua forma
enigmatica e oscura ponendolo in bocca a un profeta da tempo scomparso"
(p. 225). Il profilo di Isaia, così incombente nella tradizione
teologica e iconografica cristiana a partire dalla presenza accanto
a Maria e al Bambino nelle catacombe
di Priscilla (III sec.), si restringerebbe perciò di molto, lasciando
spazio a un'operazione di trascrizione, di imitazione, di reinterpretazione,
di creazione posteriore. Ma, pur tenendo conto delle ragioni dell'esegesi,
la pagina isaiana - che, tra l'altro, ci offre un ebraico poetico
tra i migliori in assoluto - rimarrà ormai inestricabilmente avvolta
nelle melodie del Messia di Haendel, mentre il volto di Isaia
continuerà ad affacciarsi come presenza profetico-messianica nell'annunciazione
a Maria o nella nascita di Cristo,
proprio come accade nell'anta sinistra dell'indimenticabile polittico
dell'altare di Isenheim (museo di Colmar) che Mathias
Grunewald dipinse tra il 1513 e il 1515.
Otto Kaiser, Isaia. Capitoli 1-12
(1998, Paideia, Brescia).
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