Apocrifi
Scritti
che non fanno parte del canone biblico, ma che rivendicano una autorità
sacra pari o anche superiore a quella dei libri canonici:
- Turribio di Astorga (480 ca),
- Decreto gelasiano (490 ca),
- Lista dei sessanta (sec. VII).
Antico testamento:
- Libro dei Giubilei (sec. II a.C),
- Libro di Enoc (etiopico, sec. II a.C., e slavo),
- Testamenti dei dodici patriarchi (II a.C.-III d.C.),
- Oracoli sibillini (I a.C.-IV d.C.).
Nuovo Testamento:
- Protovangelo di Giacomo o Storia della natività di Maria,
- Vangeli degli ebrei, degli ebioniti, dei nazarei,
- Vangelo di Tomaso,
- Memorie di Nicodemo o Atti di Pilato,
- Storia di Giuseppe falegname,
- Atti di Pietro, di Paolo, di Andrea, di Giovanni, di Tomaso,
- Apocalisse di Paolo.
Gli scritti dell'Antico Testamento che i cattolici chiamano apocrifi
sono detti pseudoepigrafi [libri dal falso titolo] dai protestanti,
e quelli che i cattolici chiamano deuterocanonici sono detti apocrifi
dai protestanti.
Testimonianze non-cristiane (fonti
ebraiche, siriache e latine) sul Gesù storico
1) Flavio Giuseppe, storico ebreo, Antichità
giudaiche XVIII,63-64 e XX,200;
2) un brano del Talmud babilonese, trattato Sanhedrin (sigla
bSanh 43A);
3) Mara bar Sarapion, filosofo pagano di
origine siriaca, in una lettera al figlio;
4) Caio Plinio Secondo (Plinio
[il Giovane]) lettera a Traiano
(Epistola 10,96);
5) Publio Cornelio Tacito, Annali
15,44,2-5;
6) Gaio Svetonio Tranquillo, Vita di
Claudio 25, in Vita di dodici Cesari.
[Che Gesù-Yeshua
sia esistito è quindi un dato storico sicuro, che nessuno studioso
serio nel XXI secolo mette più in discussione. - Vito
Mancuso, Io e Dio, Garzanti 2011]
|
50 - 59 d.C.
Vangelo
[o evangelo, dal greco eu
anghelion = indica anticamente la gratificazione data ad un
messo per aver portato una buona "novella"]
|
I vangelo sinottico [secondo la
tradizione]
Come tutte le testimonianze gli attribuiscono,
nel…
[50 d.C. ca], l'evangelista Matteo-Levi,
[ha due nomi come è uso frequente tra i Giudei: Matteo
(corrispondente al greco Teodoro) e Levi)],
pubblicano (riscuote cioè le imposte), proveniente da una
borgata sul lago Tiberiade chiamata Cafarnao, scrive "quasi
certamente" in ebraico [termine che sta ad indicare molto
probabilmente l'aramaico] il primo vangelo sinottico [o
evangelo, dal greco eu anghelion, termine che indicava
anticamente la gratificazione data ad un messo per aver portato
una buona "novella" ed ora usato nel cristianesimo delle
origini per significare l'annuncio della slavezza del genere umano
per merito di Gesù],
dopo aver abbandonato tutto e seguito la chiamata del maestro.
Tradotto abbastanza presto in greco, come si può intuire
dalle persone a cui e destinato (Palestinesi), questo primo vangelo
intende dimostrare che Gesù
è proprio il Messia annunciato nel Vecchio Testamento
e atteso dai Giudei.
[Questo vangelo di Matteo si compone
di 18.278 parole greche.]
Secondo il tedesco Carsten Peter Thiede,
i tre frammenti di un codice del Magdalen
College di Oxford contengono brani del capitolo 26 di Matteo,
databili tra il 40 e il 70 d.C..
compendio da Gianfranco
Ravasi
1994, febbraio, Oxford: lo studioso tedesco
Carsten Peter Thiede, la cui moglie
è inglese, professore di "wissenschaftstheoretische Grundlagenforschung"
di Paderborn, studiando i tre frammenti (il più ampio dei
quali misura 4,1x1,3 centimetri: su entrambi i lati dei frammenti
si leggevano frasi greche del capitolo 26 di Matteo)
del Papiro Magdalen greco 17 o P64, donato al collegio
Magdalen di Oxford dal reverendo anglicano Charles
Bousfield Huleatt (1863-1908), scopre che quei frammenti,
relegati dagli studiosi alla fine del II secolo erano da anticipare
di molto, anzi erano da ricondurre oltre quella soglia
fatidica del 70 d.C. [cioè sono stati scritti prima
del 70 d.C.] considerata dagli esegeti come il terminus a quo
per collocare cronologicamente la redazione di Matteo.
[Charles Bousfield Huleatt (1863-1908),
M.A., Cappellano a Luxor (1893-1901), perito nel terremoto di
Messina (1908) mentre ricopriva in questa città l'incarico
di Cappellano, durante il suo ministero pastorale in Egitto si
era imbattuto in questi tre frammenti di papiro].
1994, vigilia di Natale, il giornalista Matthew
D'Ancona pubblica sul «Times» di Londra la
fatidica notizia: "Un papiro, ritenuto il frammento più
antico del Nuovo Testamento, è stato ritrovato in una biblioteca
di Oxford".
1995, delle sue ragioni lo studioso tedesco
dà conto in un articolo di otto pagine apparso sulla «Zeitschrift
fur Papyrologie und Epigraphik».
1996, pubblica il libro:
Carsten Peter Thiede, Testimone
oculare di Gesù (1996, scritto in collaborazione con
Matthew D'Ancona, Piemme)
Per corroborare le sue asserzioni Thiede
sostanzialmente adduce tre argomenti:
- a) la grafia sarebbe simile a quella dei papiri greci
della ormai celebre settima grotta di Qumran presso il mar Morto;
in particolare si rimanda al notissimo 7Q5, un frammento con venti
lettere (dieci delle quali lesionate) disposte su cinque righe
e identificate come parte del testo evangelico di Marco (6,52-53)
dal gesuita José O' Callaghan,
identificazione osannata da alcuni e deprecata da altri. Ebbene,
quello e gli altri diciassette frammenti della grotta 7 di Qumran
sono certamente anteriori al 68, data della distruzione di quel
'monastero' giudaico da parte dei Romani. Analoghe similitudini
Thiede troverebbe con papiri di Ercolano,
anteriori al 79, data dell'eruzione del Vesuvio, e col manoscritto
di cuoio dei profeti minori biblici di Wadi Khabra, anteriore
al 73, anno della caduta della fortezza ebraica di Masada, sempre
sotto le legioni romane.
- b) l'uso giudaico di abbreviare i nomi sacri' che, per
Thiede, sarebbe stato imitato dai
cristiani prima del 70: effettivamente nei papiri in questione
si trova un IS per Iesous e un KE, Kyrie, "o Signore!".
- c) la scelta di allestire codici scritti in recto e verso
da parte dei cristiani prima del 100.
I due ultimi argomenti sono evidentemente fragili perché
al massimo indicano un terminus a quo: l'abbreviazione
dei 'nomi sacri' e il ricorso alla forma del codice (cioè
di una specie di quaderno o libro e non di rotolo) per trasmettere
i testi evangelici sono continuati anche nel II secolo.
L'unico argomento da allegare rimarebbe il primo, quello paleografico,
cioè la somiglianza di scrittura coi manoscritti di Qumran
e alcuni indizi ulteriori, come un errore dello scriba nella parola
"Galilea" e tre varianti testuali che rifletterebbero scelte più
arcaiche e vicine all'originale. Per quanto riguarda la grafia
lo stesso Thiede già nell'articolo
sopra citato era costretto a riconoscere che "le caratteristiche
della scrittura trovata in questi ambiti poté continuare
anche dopo quella data, verso la fine del I secolo e forse anche
più tardi". Ancora una volta non avremmo la prova che i
frammenti del Magdalen sono di quel periodo ma che quel periodo
è il terminus a quo e i testi potrebbero essere
anche della "fine del I secolo e forse anche più tardi".
L'errore scribale e le varianti sono state affrontate e giudicate
minuziosamente da uno dei principi della paleografia e della papirologia,
Emile Puech, del CNRS francese, in
un saggio apparso sulla prestigiosa «Revue
Biblique» (1995, pp. 570-584) della famosa École
Biblique di Gerusalemme e la sua conclusione è lapidaria:
"Il papiro Magdalen non ci insegna nulla a proposito di una
copia di Matteo del I secolo d.C. e non conferma in nulla l'ipotesi
di Thiede riguardo a Marco che non
può essere in nessun modo identificato in 7Q5".
Sulle stesse pagine a rincarare la dose contro il celebre papiro
7Q5 (e quindi indirettamente anche contro il papiro Magdalen)
entrano in scena due grandi maestri dell'esegesi neotestamentaria
M.-E. Boismard e Pierre
Grelot (pp. 585-591).
Ma c'è un'altra questione, di natura più squisitamente
esegetico-teologica, … si tratta del rapporto tra storia e
kerygma nei Vangeli.
Sia ben chiaro: è rilevante ai fini storici una datazione
più alta della redazione dei testi evangelici rispetto
a quella comunemente ammessa dagli studiosi (dopo il 70). Eppure
non è per nulla decisiva ai fini storiografici e soprattutto
esegetici. Non lo è necessariamente in sede storica perché
di per sé l'antichità e persino la contemporaneità
e la testimonianza oculare non sono automaticamente garanzia di
autenticità, al quale dev'essere vagliata sempre con una
specifica criteriologia che è appunto applicata anche ai
Vangeli da anni. Non è, poi, decisiva l'antichità
dei Vangeli in sede esegetico-teologica. E qui dobbiamo dire che,
se Thiede ha ragione di lamentarsi
per il modo sbrigativo e non accurato con cui alcuni neotestamentaristi
hanno considerato le sue argomentazioni papirologiche, è
altrettanto vero che questi ultimi hanno molto di che lamentarsi
per il modo sbrigativo, non accurato e parziale con cui egli affronta
in questo libro la discussione sul genere dei Vangeli e sul relativo
rapporto tra storia e fede.
Ora, in qualsiasi data si vogliano collocare gli scritti evangelici,
essi non cessano di essere 'Vangeli' , cioè "buone notizie",
nei quali gli eventi storici non sono raccolti per ragioni storiografiche
bensì per finalità kerygmatiche. L'intreccio tra
storia e fede è, quindi, inestricabile perché è
proprio del genere adottato; la storia è necessaria ma
non sufficiente per spiegare i Vangeli, sia che essi siano stati
composti nel 50 sia che siano apparsi dopo il 70. Le memorie storiche
di Gesù e su Gesù
sono offerte a noi illuminate da una luce che piove dall'alto,
cioè dall'esperienza pasquale. Conservare l'equilibrio
senza precipitare nel fideismo gnostico bultimanniano ma anche
senza scivolare nel razionalismo storicistico, apologetico o critico,
è come camminare su un crinale verso cui i due versanti
- quello della storia e quello della fede - convergono e si incrociano.
Proprio come accade nell'Incarnazione, cioè in Gesù
Cristo, uomo storico e figlio di Dio nella sua identità
personale unitaria. Thiede immagina
altre cose suggestive sulla scia della sua ipotesi: il papiro
Magdalen avrebbe potuto essere letto e tramandato dai "cinquecento
fratelli" che videro il Signore risorto secondo quanto riferisce
Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi
(15,6); rispolvera gli Atti di Pietro, un apocrifo
della fine del II secolo che raffigura l'Apostolo mentre incontra
nella casa romana del senatore Marcello
un gruppo di cristiani che "leggono il Vangelo", forse la pagina
della Trasfigurazione (ma Ireneo
nel suo Adversus Haereses III, 1, 1 scrive che solo "dopo
il decesso di Pietro e di Paolo,
Marco, discepolo e interprete di
Pietro, ci ha trasmesso ciò
che Pietro aveva predicato").
Ebbene, ipotesi per ipotesi e dato e non concesso che 7Q5 sia
un testo marciano e che, il Papiro Magdalen P64 sia così
antico, si potrebbe pensare a essi come a una duplice testimonianza
di quella tradizione pre-evangelica che è stata profondamente
studiata dagli esegeti e che comprendeva, sì, una predicazione
orale ma anche quasi certamente l'apparire di prime sintesi o
'schede' evangeliche (si pensi all'ipotesi tedesca della Quelle
o "fonte" che avrebbe raccolto già prima dei Vangeli canonici
una serie di loghia o 'detti' di Gesù).
E ciò che ha fatto balenare il citato Pierre
Grelot quando scriveva: "Tra l'epoca della semplice tradizione
orale e quella in cui i libretti evangelici sinottici furono completati
nel loro stato attuale ci fu uno studio nel quale l'annunzio orale
del Vangelo a opera di predicatori cristiani, che non avevano
tutti seguito Gesù durante
il suo ministero pubblico, fu certamente aiutato da 'promemoria'
scritti, che era facile portare con sé, naturalmente scritti
su papiro. Era agevole per le comunità fondate in diversi
ambiti della Giudea e della Galilea conservare delle copie".
Forse si potrebbe pensare a questi 'promemoria' di fronte ai frammenti
studiati da Thiede, sempre però
dato e non concesso che le sue ipotesi siano ineccepibili.
1996, Giugno, Risposta a Gianfranco
Ravasi di Carsten Peter Thiede
È stato detto che gli studiosi del Nuovo Testamento sono
i soli studiosi dell'antichità ai quali non piace sia detto
che i loro documenti sono antichi e autentici. Questo è
un problema non per i papirologi o gli storici, ma per gli studi
sul Nuovo Testamento.
I papiri, i più antichi manoscritti disponibili, sono ingredienti
importanti della ricerca scientifica per stabilire le origini
e la tradizione di un testo dell'antichità classica. A
questo riguardo, i papiri del Nuovo Testamento non sono differenti
dai papiri di Omero o Virgilio. Uno degli oscuri e non scientifici
aspetti del dibattito riguardo il celebre frammento di Qumran
7Q5 (Marco, 6,52-53) e il papiro di Oxford P64/67
(Matteo, frammenti dei capitoli 3, 5 e 26) è che molti
critici li trattino come oggetti completamente differenti. Come
se i manoscritti del Nuovo Testamento e quelli di altri testi
dell'antichità fossero stati scritti su pianeti differenti.
Ovviamente, ciò non accadde: essi dipendevano dalle stesse
abitudini e tradizioni scribali, erano soggetti alle stesse tecniche
di produzione, moltiplicazione e diffusione. Le persone che copiarono
i Vangeli, per esempio, possono aver creduto all'accuratezza dei
loro testi, ma prima di tutto erano comuni esseri umani, giudeo-cristiani,
greci, romani e altri, che avevano acquisito l'abilità
tecnica necessaria per far ciò che fecero. Quei controversi
papiri del primo secolo di Marco
e Matteo, tutti scritti prima del
70 d.C., sono un caso utile e rivelatore.
Su questo supplemento, il 2 giugno scorso, Gianfranco Ravasi
presenta il nostro caso (pubblicato in Testimone oculare
di Gesù, Piemme) in un modo non proprio adeguato.
Dice che noi abbiamo tre fondamentali argomenti per provare che
il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto prima del 70
d.C..
Il suo primo punto:
- a) la paleografia - cioè lo stile di scrittura
- che è simile a quella dei manoscritti della grotta 7
di Qumran - e di alcuni della grotta 4, che egli omette di citare.
Entrambe le grotte furono 'chiuse' nel 68 d.C., quando Qumran
fu abbandonata. Assomiglia pure allo stile dei papiri di Ercolano,
che devono essere più antichi del 79 d.C., anno in cui
la città venne distrutta dall'eruzione del Vesuvio, e dei
manoscritti del Nahal Hever. I testi del Nahal Hever risalgono
alla prima metà del primo secolo. Ravasi
li confonde con gli ostraca (cocci con iscrizioni) trovati
a Masada, ai quali pure ci riferiamo e che devono essere più
antichi del 73 d.C., anno in cui Masada fu occupata dai romani.
Ravasi omette i nostri riferimenti
dettagliati a ulteriori manoscritti confrontabili: il più
antico papiro conosciuto dell'autore greco Aristofane
o, per dare un altro esempio, una lettera di richiesta scritta
da un contadino il 24 luglio 66, entrambi furono ritrovati in
Alto Egitto.
Il punto qui è: certi stili e caratteristiche scribali
erano comuni nell'ambito dell'Impero Romano, durante un particolare
periodo. Non sappiamo da dove siano arrivati i frammenti di papiro
del Vangelo di Matteo, il P64. Fu acquistato al mercato
di Luxor nell'Alto Egitto, nel 1901, e fu probabilmente trovato
non lontano da Luxor. Ma avrebbe potuto raggiungere tale luogo
da Roma, o Corinto, o Gerusalemme, o Alessandria: non dobbiamo
mai dimenticare che una nave impiegava tre giorni per raggiungere
Alessandria da Roma, o cinque per raggiungere Pozzuoli da Corinto,
e così via. Un Vangelo copiato a Roma potrebbe essere stato
a Luxor od Ossirinco entro una settimana. In altre parole, dobbiamo
abbandonare la vecchia e sbagliata idea di anni o decenni di evoluzione
tra un testo e l'altro. Tutto accadeva molto velocemente,
e così doveva essere: la gente voleva vedere i frutti del
proprio lavoro, e lo spazio lavorativo nella vita di una persona
in quei giorni era in media di 25 anni. Nessuno voleva aspettare.
Velocità, energia, comunicazione, inventiva erano i segni
distintivi del periodo neotestamentario.
- b) la tecnica di abbreviazione dei 'nomi sacri' nei papiri
cristiani. Nomi e parole connessi con la Santa Trinità,
come 'Dio' , 'Signore' , 'Gesù, 'Cristo' , 'Figlio', 'Spirito'
e parecchi altri, erano abbreviati usando soltanto la prima e
l'ultima lettera (a volte una terza). Si trattava di una dichiarazione
teologica basata sul modello giudaico di scrivere il nome impronunciabile
di Dio, YHWH - una sequenza di lettere che doveva sembrare una
abbreviazione nei manoscritti greci dei testi dell'Antico Testamento,
Gesù era Dio - una affermazione resa visibile abbreviando
il suo nome e la parola 'Signore', che poteva essere usata sia
per Dio che per Gesù.
Ravasi pensa che io sia il primo a supporre che questo
sistema fosse stato introdotto dagli scribi cristiani prima del
70 d.C. Ma non è così. Fin dalle pubblicazioni di
Roberts e Skeat
nel 1979 è nozione condivisa dai papirologi che l'introduzione
di questo sistema deve essere avvenuta prima del 70 d.C., quando
la comunità di Gerusalemme era ancora esistente. In effetti
noi sappiamo quando questa comunità cessò di esistere:
nell'anno 66 d.C., quando i cristiani fuggirono a Pella in Transgiordania.
In altre parole, un antico papiro con 'nomi sacri', come il P64,
datato al periodo prima del 70 d.C., non può sorprendere
studiosi che abbiano familiarità con la letteratura papirologica.
- c) il formato: il papiro del Vangelo di Matteo
faceva parte di un codice, il precursore del nostro moderno libro
- mentre in un primo tempo i cristiani avevano usato il rotolo,
come ogni altro. Ancora, è risaputo tra i papirologi che
i cristiani devono aver introdotto questo improvviso cambiamento
dal rotolo al codice prima del 70 d.C. Perciò l' "improvvisa"
apparizione di un codice cristiano su papiro non può sorprendere
papirologi e storici che abbiamo dovuto comunque fare i conti
con la sua esistenza. È superfluo dire che né i
'nomi sacri' abbreviati, né il formato di codice sono in
loro stessi argomentazioni per una data più antica del
papiro P64. Ciò che diciamo nel nostro libro è un
fatto ovvio: queste caratteristiche non escludono una datazione
antichissima (come hanno pensato alcuni critici del Nuovo Testamento):
piuttosto, esse rendono accettabile che il papiro del Vangelo
secondo Matteo appartenga effettivamente al periodo prima
del 70 d.C.. La data in se stessa dipende dalle tecniche precise
di datazione della paleografia comparativa: questo non ha bisogno
di spiegazioni. È dunque assolutamente vitale distinguere
tra caratteristiche di un particolare stile di scrittura che potrebbe
essere stato usato in uno stadio più recente e altre che
sono decisamente più antiche e si persero nell'uso. Ravasi
cita erroneamente il contesto del mio articolo specialistico,
pubblicato nel 1995, quando pensa che io faccia proseguire tutte
le caratteristiche in periodi più recenti, senza differenziazione.
Su una tale base nessun testo potrebbe venire datato. Il compito
del papirologo non è così semplice. Ci vogliono
mesi, e a volte anni, di lavoro di comparazione per distinguere
tra conclusione e continuazione, stili antichi e più recenti
all'interno di uno stesso periodo, tra massimo splendore e decadenza,
e così via. Questo arduo lavoro di comparazione rende il
lavoro del papirologo difficile, ma in fin dei conti, entusiasmante
e appagante.
Non possiamo aggiungere ulteriori approfondimenti sui nostri papiri
partendo dal riferimento di Ravasi
a tre articoli di Emile Pucch. M.-I.
Boismard e Pierre Grelot in
un recente numero di «Revue Biblique». Tutti e tre
gli articoli hanno una cosa in comune: gli autori sanno, ancora
prima di cominciare, che il frammento 7Q5 non può essere
Marco 6,52-53 e che il frammento P64 (S.
Matteo) non può essere più antico del 70
d.C.. Di conseguenza essi distorcono le nostre argomentazioni,
tralasciano dettagli necessari e ricorrono alla polemica quando
vengono meno le argomentazioni. Non è questo il modo di
condurre un dibattito scientifico. Noi studiosi di storia, papirologi,
critici letterari e teologi dobbiamo lavorare insieme, non uno
contro l'altro, e sicuramente non sulla base di quella dannosa
'prescienza' che è così diffusa nella moderna teologia.
Il risultato della ricerca accademica può essere determinato
alla fine, non all'inizio.
Gianfranco Ravasi arriva infine al suo punto nodale: l'importanza
delle date per la comprensione dei Vangeli e della loro storicità.
Egli ammette che una datazione più antica (prima del 70
d.C.) sia importante per motivi storici. Ma dichiara anche che
un testo primitivo non garantisce automaticamente l'autenticità
dei contenuti. Ovviamente, anche il racconto di un testimone oculare
deve essere analizzato - come accade anche oggi in ogni tribunale
-.
Il punto di partenza, tuttavia, è: abbiamo a che fare
con dei racconti di testimoni oculari, o siamo obbligati a fidarci
di prove di seconda o di terza mano?
Ravasi semplicemente sbaglia quando afferma: "Non è
poi decisiva l'antichità dei Vangeli in sede esegetico-teologica".
Almeno in un caso è assolutamente vitale: i moderni teologi
credono che molte parole di Gesù
siano state inventate da una seconda, posteriore, generazione
di seguaci. Per dirla espressamente: credono che gli autori cristiani
lavorassero di fantasia quando misero per iscritto delle parole
di Gesù che Gesù
non aveva mai detto. Un esempio classico è la sua profezia
della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questo avvenne
nel 70 d.C. Gli studiosi di Nuovo Testamento - con poche eccezioni
- affermano che questa profezia fu inventata dopo l'evento, un
cosiddetto vaticinium ex eventu. Tuttavia, se gli storici
possono documentare, e se i papirologi possono mostrare che almeno
uno dei Vangeli fu scritto prima della distruzione del 70 d.C.,
allora Gesù' fece la profezia.
E quindi noi avremmo almeno (!) un ulteriore pilastro del ponte
che attraversa il fossato tra il Gesù
della storia e il Cristo della fede.
Non corrisponde a verità ciò che Ravasi
dice, che gli eventi "non sono raccolti per ragioni storiografiche
bensì per finalità kerygmatiche".
Gli storici sono giudici migliori, e può essere sufficiente
ricordare ai lettori l'introduzione al Vangelo di Luca.
Questa introduzione combina la pretesa esplicita di scrivere storia
con l'ugualmente esplicita intenzione di aiutare nella comprensione
della fede, precisamente perché essa è radicata
in fatti storici, documentati da testimoni oculari. Leggete Luca,
1,1-4. Ravasi può decidere
di non credere a San Luca. Ma onestamente
non può dire che Luca non
intendesse scrivere storia. Per Luca,
storia e fede non sono opposte. Solo quando le fondamenta storiche
sono stabilite, la fede può svilupparsi liberamente ed
energicamente, senza doversi guardare indietro continuamente.
A questo riguardo, in ogni valutazione, Ravasi
è corretto: dobbiamo mantenere un 'equilibrio'. E in ordine
a capire le precise radici della nostra conoscenza storica, dobbiamo
analizzarle senza pregiudizi. Ravasi
cita Sant'Ireneo. Questo famoso 'Padre
della Chiesa' scrisse a riguardo della cronologia del Vangelo
di Marco, nel suo libro Adversus Haereses. Ma, contrariamente
a quanto crede Ravasi, Ireneo
non dice che il Vangelo di Marco fu scritto "solo dopo
il decesso di Pietro e di Paolo".
In una analisi computerizzata di tutte le opere di Ireneo,
pubblicata nel 1992, lo studioso americano E.
Earle Ellis diede la prova conclusiva che Ireneo
usa sempre la parola greca thanatos quando vuole dire 'decesso',
ed exodos quando vuole dire 'partenza'. Nel passaggio citato
da Ravasi, la parola greca è
exodos (detto incidentalmente, questo è anche il
titolo del secondo libro dell'Antico Testamento, che non
si riferisce alla morte del popolo di Israele, ma alla sua partenza
dall'Egitto). In altre parole, Ireneo
dice abbastanza chiaramente che il Vangelo di Marco fu
scritto prima della morte di Pietro
e di Paolo!
Infine, né il frammento 7Q5 (Marco 6,52-53),
né il frammento P64 (Matteo 26) possono essere
parti di una 'tradizione pre-evangelica'. Anche Kurt
Aland, uno degli oppositori dell'identificazione fatta
da O' Callaghan di 7Q5, ha ammesso
che 7Q5, se appartenente a Marco,
deve provenire da un Vangelo completo, poiché i versetti
6,52-53 combinano due brani narrativi nella loro edizione definitiva.
Per Aland, questo fatto era una ragione
per rifiutare l'identificazione, dal momento che credeva che non
potesse esserci stata la redazione definitiva del Vangelo di
Marco prima del 68 d.C.
Un modo curioso di condurre la ricerca scientifica. Nel caso del
papiro di Matteo, sappiamo che doveva
essere parte di un Vangelo completo: i due frammenti chiamati
P67, ora a Barcellona, che un tempo appartenevano allo stesso
codice, contengono parti dei capitoli 3 e 5 di Matteo.
In altre parole: siamo di fronte a un vangelo completo, non a
una 'Quelle' o fonte o, come lo chiamano Grelot
e Ravasi, 'promemoria'.
I fatti puri e semplici rendono questa scappatoia impossibile.
Due vangeli scritti prima del 70 d.C. - prima del 68 d.C., per
essere precisi -: Marco
e Matteo. Perché gli studiosi del Nuovo Testamento
dovrebbero essere intimoriti da questo risultato della moderna
ricerca storica? Non dovremmo essere tutti grati per l'intuizione
che i vangeli, come documenti storici, furono scritti al tempo
dei testimoni oculari, con accesso diretto al materiale autentico?
O dovremmo guardare al dibattito con un certo senso di stupore
e meraviglia, se gli studiosi del Nuovo Testamento vogliono
effettivamente essere gli unici studiosi dell'antichità,
che non gradiscono venga detto che i loro documenti sono antichi
e autentici?
* Carsten Peter Thiede - Membro
dell'Associazione internazionale dei papirologi (Aip), German
Institute for Education and Knowledge, Paderborn.
1996, Giugno, Controrisposta a Carsten
Peter Thiede di Gianfranco
Ravasi
[Sulla questione della datazione dei vangeli sollevata
da Gianfranco Ravasi il 2 giugno
scorso è intervenuto il 16 giugno il papirologo Carsten
Peter Thiede. Pubblichiamo ora la risposta di Ravasi.
È con una certa ritrosia che ritorniamo sulla questione
del Papiro evangelico (Matteo 26) Magdalen,
nuovo cavallo di battaglia di Carsten Thiede,
il direttore del German Institute for Education and Knowledge
di Paderborn dedicatosi da qualche anno alla papirologia neotestamentaria.
E non solo perché continuiamo a non ritenere decisiva la
determinazione cronologica del papiro stesso a metà del
I secolo con la conseguente teoria storico-teologica ma anche
perché non vogliamo defatigare i nostri lettori trasformando
il supplemento del Sole-24 Ore in una rivista specifica di scienze
bibliche.
Per cominciare - battuta per battuta - mi piacerebbe replicare
all'invito che Thiede rivolge ai
biblisti di non essere gli unici restii a non riconoscere l'antichità
dei testi da loro studiati, con le parole di un grande studioso
delle origini cristiane, Jean Danielou:
"Abituati alla ricerca rigorosa e alla concatenazione delle
prove, non lasciamoci irretire dal colpo di fulmine: può
essere solo un fuoco d'artificio o un'illusione ottica". Cominciamo
innanzitutto con certi errori sorprendenti, che vorremmo sperare
dovuti al fatto che Thiede forse
non conosce l'italiano ed è dovuto ricorrere a un traduttore
che gli ha offerto un altro testo rispetto a quello da me scritto.
Ecco un esempio illuminante. Scrive il nostro: "I testi di Nahal
Hever risalgono alla prima metà del primo secolo.
Ravasi li confonde con gli ostraca
(cocci con iscrizioni) trovati a Masada, ai quali pure ci riferiamo
e che devono essere più antichi del 73 d.C., anno in cui
Masada fu occupata dai romani". Stupefatto, rileggo e riscrivo
quanto avevo allora scritto: "Analoghe similitudini Thiede
troverebbe coi papiri di Ercolano... e col manoscritto di pelle
dei profeti minori biblici di Wadi Khabra (Nahal Hever), anteriore
al 73, anno della caduta della fortezza ebraica di Masada, sotto
le legioni romane".
Dove siano i miei 'ostraca' resta proprio da accertare...
Ma lasciamo stare queste confusioni, come quella secondo la quale
io riterrei Thiede lo scopritore
dell'antichità (prima del 70) del sistema di abbreviazione
dei nomi divini: conosco bene i saggi di Roberts
e Skeat a cui si rimanda. Ma a proposito
di costoro mi premerebbe, allora, ricordare che entrambi (e con
loro anche H. Bell ed E.
G. Turner) collocano, però, il papiro Magdalen
alla fine del II secolo d.C.. Thiede,
però, si guarda bene dal sottolineare la nostra conclusione
che è la più sicura, scientificamente parlando:
"Non abbiamo la prova che i frammenti di Magdalen sono di quel
periodo ma solo che quel periodo è il terminus a quo"
delle caratteristiche segnalate (cioè scrittura, abbreviazione
di nomi divini e la forma del codice). Thiede
stesso è costretto a riconoscerne il rilievo quando, divenuto
improvvisamente modesto e cauto, scrive soltanto: "Queste caratteristiche
non escludono una datazione antichissima; piuttosto esse rendono
accettabile che il papiro del vangelo secondo Matteo appartenga
effettivamente al periodo prima del 70 d.C..". Bell'esempio
di argomentazione negativa... Anzi, come ricordavamo già
nella nostra recensione, nell'articolo sulla «Zeitschrift
fur Papyrologie und Epigraphik» (1995, pag. 17), ancor più
rispettoso, scriveva: "Le caratteristiche della scrittura trovata
in questi ambiti poté essere continuata dopo questa data
(cioè prima del 70), verso la fine del I secolo e forse
anche più tardi". Ma il nostro giustamente rimanda all'analisi
paleografica e, dopo una frase incomprensibile (forse dovuta alla
versione del mio e del suo articolo dal tedesco) riguardo a una
mia citazione considerata come "erronea del contesto del suo articolo
specialistico pubblicato nel 1995" (?), fa capire di riproporre
le argomentazioni già addotte. Esse, però, sono
state smontate dall'articolo di quel grande paleografo che è
Emile Puech da noi citato: è
alle sue puntuali obiezioni che Thiede
deve rispondere, senza accontentarsi di liquidare lo studioso
come perverso negatore delle sue tesi. Tra l'altro egli scrive:
"Puech, Boismard
e Grelot sanno, ancora prima di cominciare,
che 7Q5 (l'ormai famoso papiro 'marciano' di Qumran) non può
essere Marco 6,52-55 e che P64 non può essere più
antico del 70 d.C..".
Ma ha letto davvero i due saggi di Puech
e Boismard sull'argomento o la sua
è una reazione immediata, "ancora prima di cominciare"?
E a noi spiace, per ragioni ovvie, di spazio e di genere, di non
poter presentare gli argomenti di Puech
e di Boismard, apparsi sulla «Revue
Biblique», riguardo al P64 e a 7Q5. Thiede,
però, ci fa capire che egli sta continuando le ricerche
perché "ci vogliono mesi, e a volte anni, di lavoro di
comparazione per distinguere tra conclusione e continuazione,
stili antichi e più recenti all'interno di uno stesso periodo,
tra massimo splendore e decadenza" eccetera.
Staremo a vedere.
Sta di fatto che per ora è legittimo non essere soddisfatti
delle sue conclusioni.
Ma veniamo alla questione "esegetico-teologica". Qui Thiede
si trova giustamente a disagio e si abbandona a scomposte reazioni
e a non poche confusioni trattandosi di materia che gli è
estranea. "Ravasi può decidere
di non credere a San Luca", grida,
dopo avermi menzionato il prologo dell'evangelista, il quale però
conferma che l'evangelista scrive dopo la prima generazione dei
testimoni oculari da lui interpellati e vagliati nelle loro attestazioni,
cioè proprio quello che si sostiene da parte dell'esegesi
storico-critica riguardo alla genesi dei vangeli. E aggiunge:
"Onestamente non si può dire che Luca
non intendesse scrivere storia". E qui è evidente la sua
non conoscenza del genere 'vangelo' nel suo rapporto tra storia
e fede.
Ma, caro Thiede, ha mai letto il
vangelo di Luca con la sua grande e libera organizzazione strutturale
del 'viaggio verso Gerusalemme' (cc. 9-19), frutto di un'evidente
operazione redazionale? Non ha mai individuato il profilo del
Gesù di Luca, differente secondo
alcuni lineamenti rispetto a quello degli altri Sinottici? Non
ha mai confrontato il vangelo dell'infanzia di Gesù secondo
Luca con quello di Matteo?
Se è 'storico' solo Luca,
come la mettiamo con gli altri evangelisti e le loro diverse relazioni?
E sì che Thiede condivide
quello che io scrivo a proposito di 'equilibrio' tra fede e storia.
Non mi resta, allora, che rimandare all'articolo precedente ove
avevo precisato il nesso tra storia e fede. Se la qualità
storiografica dei vangeli può acquisire qualche vantaggio
dalla retrodatazione (ma anche qui, con le cautele del caso),
i quattro libretti non cessano mai di essere quello che sono,
'vangeli', cioè "buone notizie" in cui la storia - effettivamente
presente - è selezionata, interpretata e trascesa. È
per questo che ripetiamo, con buona pace di Thiede,
che l'antichità dei vangeli "non è decisiva in sede
esegetico-teologica" e lo è solo parzialmente in sede storiografica
(si devono, infatti, risolvere ancora tanti problemi sulle molteplici
diversità dei dati offerti dai racconti evangelici, si
devono applicare criteri di verifica dell'autenticità dei
dati, si devono condurre quelle ricerche storico-letterarie che
l'esegesi storico-critica svolge non solo per mesi ma per anni
e da decenni).
Dovremmo a questo punto aggiungere una serie di repliche su
dettagli minori.
Mi piacerebbe ritornare sulla testimonianza di Ireneo
della quale Thiede si sbarazza ricorrendo
al computer e che meriterebbe un'analisi contestuale più
accurata, oppure sulla questione delle fonti apoditticamente giudicata
incompatibile con la sua ipotesi (Marco 6,52-53 - presente in
7Q5 secondo Thiede - fa parte, tra
l'altro, della cosiddetta 'sezione dei pani' che pare essere un'unità
autonoma preesistente ben articolata...).
Ci fermiamo qui, convinti che basti. Non tema Thiede:
i biblisti saranno soddisfatti se si dimostrerà in modo
rigoroso e con una base documentaria effettiva l'antichità
dei vangeli. Tutto questo, però, non muterà di molto
la ricerca sulla reale qualità dei vangeli stessi, così
come è da sempre definita. Che la relativa distanza dai
fatti supponga che "gli autori cristiani frodassero quando misero
per iscritto" gli eventi e le parole di Gesù
è un'obiezione del paleolitico esegetico razionalistico.
Non impressiona né una seria esegesi storico-critica né
una fondata teologia. Ci permettiamo, invece, di ricordare un
rischio ben stigmatizzato nel finale di un articolo del teologo
Inos Biffi, apparso in questi giorni
sul quotidiano cattolico «Avvenire» e che vivamente
consigliamo per l' 'equilibrio' e il rigore teologico: "Una
sprovveduta visione teologica della questione sulla data dei vangeli
innescherebbe una polemica sterile, con facili e infondate accuse
di gnosticismo e una vana retorica sull'avvenimento".
1996 21 Luglio. Testo di Gianfranco Ravasi.
Vorremmo contestare punto per punto le argomentazioni
di Carsten Peter Thiede
che tendono a banalizzare le analisi esegetiche e la teologia
("camicia di forza di un sistema preconcetto di idee": sembra
di sentire un vecchio razionalista dell'Ottocento!). Vorremmo
ricordargli che quello che ora afferma in modo semplificato e
polemico è quello che insegna in modo puntuale e accurato
da tempo l'esegesi classica: la predicazione dei primi testimoni
è assunta ed elaborata da parte degli autori dei Vangeli.
Luca assume la testimonianza di altri
e la elabora secondo un suo progetto storico, letterario e teologico.
Il suo Vangelo è, quindi, opera di un testimone indiretto
che dipende da altri appartenenti a un orizzonte da lui non più
direttamente verificabile. Questo, però, dovrebbe creare
difficoltà alla tesi di Thiede
che tende a considerare i Vangeli come opera di testimoni diretti.
Non ne crea nessuna all'esegeta perché sia i testimoni
diretti sia gli indiretti hanno annunziato e scritto non una biografia
storica bensì un 'evangelo'. Vorremmo ricordare, poi, a
Thiede che ci sono ordinamenti dei
dati e dei materiali nei vangeli che sono storicamente divergenti
tra loro e non sono mero frutto di prospettive differenti (non
per nulla Thiede non cita l'originale
corpo centrale del vangelo di Luca da noi evocato). Basterebbe
solo che si leggesse qualche serio (e non fondamentalista) commento
esegetico ai Vangeli - pensiamo al Luca del suo
connazionale Heinz Schumann e ai
Marco e Matteo di Joachim
Gnilka, pure lui tedesco, tutti tradotti anche in Italia
- per accorgersi della complessità delle diverse letture,
tutt'altro che sbrigativamente risolvibili con le battute. Potrei
anch'io opporre facili elenchi di incompatibilità storiche
tra i Vangeli (già S. Agostino
le segnalava!) ma sarebbero fuorvianti, proprio per la specifica
qualità del testo evangelico. Ma per non correre il rischio
di dare il via a un nuovo genere, quello della telenovela esegetica,
mi pare utile per il lettore - frastornato dalla vicenda - di
ribadire alcuni punti veramente capitali di indole generale, vere
e proprie articolazioni della questione nel suo rigore storico,
esegetico e teologico. – a) la questione papirologico-paleografica
dev'essere risolta con criteri propri.
In questo campo quella di O' Callaghan
per il papiro di Qumran (7Q5) e quella di Thiede
per lo stesso papiro e per il "Magdalen" di Oxford è un'ipotesi
di identificazione evangelica per il primo e di definizione cronologica
per il secondo, contrastata nettamente da altri paleografi con
precisi argomenti papirologici. Fino a quando non si ha una ragionevole
sicurezza e una certa base consistente si può solo parlare
di ipotesi e nella storia si sa bene quante ne siano fiorite e
in seguito avvizzite.
– la questione storiografica non si può risolvere
con la pura e semplice retrodatazione che, al massimo, può
offrire un contributo. E non solo per la ragione spesso detta
che la contemporaneità non è automaticamente sinonimo
di autenticità (lo stesso Thiede
lo riconosce) ma soprattutto perché i criteri di verifica
storiografica sono molto più complessi e devono essere
applicati anche ai Vangeli. Questi ultimi, infatti, si presentano
al riguardo a prima vista problematici.
E qui insistiamo.
Tanto per stare solo a Marco e Matteo,
come mai tra i due esistono così numerose diversità,
figure con notevoli variazioni, indicazioni storiche e geografiche
non coerenti, mutamenti in parole e in memorie di Gesù
e così via, come è stato già segnalato fin
dal tempo dei Padri della Chiesa?
L'analisi storiografica sui Vangeli è stata molto sviluppata
in questi ultimi decenni con criteri rigorosi e accurati e sarebbe
opportuno per tutti conoscerne metodi e risultati.
– la questione letteraria: ci si perdoni la ripetizione,
ma il genere "Vangelo" non coincide né con quello di un
manuale di storiografia né con un verbale di polizia né
con un documento redatto per un archivio storico né con
una biografia in senso stretto (certo, neppure col genere del
racconto mitico e con quello del romanzo storico). Giungiamo così
al crinale tra letteratura-storia-teologia. I Vangeli sono libri
nei quali la storia è indispensabile: l'evento Gesù
è capitale e radicale. Ma la storia non è fine a
se stessa perché nella figura e nell'evento Gesù
si intuisce e si proclama la piena rivelazione di Dio. La Pasqua
è il nodo d'oro in cui s'intreccia umanità (la morte)
e divinità (la risurrezione) in modo inscindibile e questa
epifania illumina chi era veramente Gesù
Cristo, prima e poi.
Gli evangelisti e la costante predicazione della Chiesa illustrano
nella storia di Gesù di Nazareth
il mistero, compiendo un'operazione che va ben oltre quella dello
storico e i loro testi ne sono una testimonianza limpidissima.
È solo con questa serie di notazioni metodologiche precise,
senza velleitarismi, stereotipi e tentazioni pubblicitarie, che
si può impostare una genuina e seria ricerca sui Vangeli.
1997, Febbraio …Gianfranco Ravasi
Qualche mese fa, polemizzando col papirologo Carsten
Peter Thiede riguardo al suo pamphlet Testimone oculare
di Gesù (ed. Piemme 1996), esprimevano l'auspicio di
veder raccolti, in un volume, i saggi scientifici che contestavano
le asserzioni dello studioso tedesco e quelli, antecedenti, del
gesuita spagnolo José O' Callaghan,
risalenti al 1972, che dettero il via al dibattito.
Eccoci subito accontentati dal numero 247 della collana «Giornale
di Teologia» che, a opera di Flavio
Dalla Vecchia e con una preziosa post-fazione di un noto
neotestamentarista italiano, Giuseppe Segalla,
costruisce un dossier di undici articoli.
Naturalmente in capite sono poste quelle ormai famose nove pagine
apparse nel 1972 sulla rivista Biblica nelle quali O'
Callaghan sosteneva che il frammento 7Q5, ritrovato nella
settima grotta di Qumran presso il mar Morto, databile per ragioni
paleografiche tra il 50 a.C. e il 50 d.C., contenesse alcune parole
del testo greco di Marco 6, 52-53.
A questo saggio è giustapposto, com'è logico, l'articolo
caloroso di sostegno a questa identificazione che Thiede
pubblicò sulla stessa rivista nel 1984, contribuendo così
alla ripresa del dibattito e soprattutto a farlo sconfinare anche
oltre il recinto specialistico.
Nel 1995 Thiede, che nel frattempo
era diventato un apostolo della retrodatazione dei Vangeli, agitava
di nuovo le acque con un articolo apparso sulla «Zeitschrift
fur Papyrologie und Epigraphik» ove si prendeva di mira
un altro testo, il papiro Magdalen greco 17 di Oxford,
contenente alcuni versetti del capitolo 26 di Matteo.
Anche questo saggio è ora inserito nel dossier ed è
significativo confrontarne le risultanze con quelle del citato
Testimone oculare di Gesù: lo studioso tedesco,
trovandosi nel salotto buono della papirologia e senza le spinte
promozionali del giornalista Matthew D'Ancona
che aveva con lui curato il volume, si mostra molto più
cauto (si tratterebbe di uno "tra i primi esempi della nascita
del codice cristiano prima della fine del secolo").
A questo punto, presentate le tesi, ecco il fuoco di fila delle
repliche affidate al Gotha della papirologia, della paleografia
e dell'esegesi internazionale.
– Inizia Maurice Baillet,
che fu editore ufficiale dei frammenti della settima grotta di
Qumran, del quale segnaliamo solo la conclusione riguardante 7Q5:
"L'identificazione di 7Q5 con Marco 6, 52-53 è sicuramente
da respingere". E più avanti aggiunge: "Chi
può dire se con pazienza, tempo e fortuna, non si giungerà
un giorno a individuare nella Bibbia greca, non soltanto questo
frammento (7Q3) ma l'uno o l'altro di quelli che O'
Callaghan tenta di attribuire al Nuovo Testamento?".
– A Eichstatt, deliziosa cittadina medievale
della Baviera, nel 1992 si era tenuto nel frattempo un convegno
proprio sul rapporto tra Qumran e il cristianesimo (Christen
und Christliches in Qumran è il titolo degli Atti pubblicati).
Ebbene, uno degli interventi più puntuali fu quello di
Camille Focant, la cui conclusione
fu lapidaria: la tesi di Thiede-O'
Callaghan "potrebbe essere discussa se fosse meno
discutibile". Lo stesso autore è ora presente nel
dossier con un articolo precedente (1985) ove s'infittiscono talmente
le obiezioni all'ipotesi della presenza del Vangelo di Marco
a Qumran da "renderci scettici sulla sua esattezza".
– Divertente e già assertivo è
il titolo del testo successivo, quello di Hans-Udo
Rosenbaum: Cave 7Q5‚ ove si gioca sul doppio
senso di 'cave', in inglese 'grotta' e in latino 'guardati'.
"L'auspicio - conclude lo studioso tedesco al termine
del suo robusto studio - è che anche i non specialisti
non si lascino deviare dagli scritti poco ponderati (e in parte
anche di grande successo) di Thiede.
Per essi soprattutto vale la messa in guardia del titolo: Cave
7Q5‚ Guardati da 7Q5".
A questo punto sfilano gli altri cinque contributi
critici nei confronti di Thiede-O' Callaghan:
essi appartengono ai grandi nomi della 'scuola francese':
- Marie-Emile Boismard, (due
articoli)
- Emile Puech, (due articoli)
- Pierre Grelot, (due articoli)
Delle loro osservazioni avevamo già dato conto negli articoli
apparsi nella scorsa estate durante il nostro dibattito con Thiede.
Forse merita di essere segnalato il monito del battagliero Pierre
Grelot (la sua autobiografia scientifica s'intitola
Combats pour la Bible dans l'Eglise...); "La ricerca
del sensazionale è una malattia molto frequente nella categoria
dei giornalisti: coloro che credono a essi senza aver verificato
la fonte cascano facilmente nella trappola così tesa. Nel
caso presente, C.P. Thiede ha presentato
un'ipotesi di lavoro dai contorni abbastanza incerti, che non
procura alcun disturbo al lavoro degli esegeti seri. Le sue congetture
convinceranno solo i giornalisti i quali ignorano tutti i dati
del problema e quindi sono pronti ad accettare qualsiasi cosa
a motivo di questa ignoranza. La solidità della fede non
si fonda su congetture troppo poco solide".
Al di là della staffilata lanciata contro i giornalisti
sulla quale non vogliamo pudicamente pronunciarci, Grelot
allarga la questione verso un ulteriore orizzonte nel quale Thiede
s'è mosso in modo piuttosto grossolano, quello della storicità
dei Vangeli e del metodo esegetico storico-critico praticato
costantemente e prevalentemente dai neotestamentaristi moderni.
Basterebbe solo citare questa 'perla' del volume Testimone
oculare di Gesù: "Fra i discepoli di Gesù
si può pensare che Levi-Matteo
... avesse conoscenza pratica della stenografia (tachigrafia).
Gli studiosi (?) hanno ipotizzato, abbastanza naturalmente, che
avrebbe potuto stenografare, parola per parola, il Discorso della
Montagna".
Di fronte a queste righe e ad altre simili Segalla
- che, come si diceva, fa il punto conclusivo del dibattito al
termine del dossier - giustamente osserva: "Qualsiasi studioso,
dotato di una cultura biblica elementare, resterà stupito
nel costatare quale ricca sintesi di ignoranza degli studi biblici
sono riusciti a mettere insieme Thiede
e D'Ancona" e nella pagina
187 ne elenca la serie, sottolineando tra l'altro un dato decisivo,
ovviamente ignorato dai Nostri. "Noi non possediamo solo
il Vangelo di Matteo, ma anche quello di Luca, che riporta pure
un discorso iniziale di Gesù, più breve di quello
trasmesso da Matteo e quivi incluso, in modo variato. Ora, se
si accetta la tesi ingenua del Thiede,
bisognerebbe dire che Luca ha sbagliato, perché non ha
copiato bene il vero Discorso della Montagna riportato dal testimone
oculare Matteo, discorso del vero Gesù". Il genere
'Vangelo' è ovviamente ben diverso da una cronaca, da un
verbale, da una ripresa stenografica, da un testo storiografico,
ed è solo frutto di semplificazione o propaganda immaginare
che i problemi che gli scritti evangelici pongono per una corretta
interpretazione possano essere spazzati via con la loro semplice
(e, per di più, tutt'altro che certa) retrodatazione. I
Vangeli devono essere interrogati su quanto essi realmente vogliono
essere e comunicarci, cioè sulla "verità storica,
e quindi sul significato degli eventi piuttosto che sulla fattualità
spazio-temporale in senso moderno di quanto narrano", come giustamente
annota ancora Segalla.
Il dossier che abbiamo presentato ha, comunque, lo scopo primario
e il pregio di offrire a tutti la possibilità di vagliare
in modo serio le argomentazioni paleografiche su alcuni testi
che sembrerebbero ridatare i Vangeli di Marco
e di Matteo. In realtà, sia
7Q5 sia il Magdalen greco 17 non portano al riguardo
novità sconvolgenti e rimane, perciò, in vigore
la collocazione cronologica che consegue all'accurata ricerca
interna ai Vangeli stessi condotta dall'esegesi storico-critica:
Marco potrebbe precedere
il 70, gli altri seguirlo; nel caso di Giovanni
si potrebbe giungere fino al 90.
A margine desidero dare una risposta a due lettori che tempo fa
mi hanno chiesto informazioni sulla notizia riguardante la conferma
della presenza del testo marciano in 7Q5 secondo le moderne teorie
del calcolo. A quanto mi è noto, F.
Rohrhirsch ha applicato alle lettere in questione il calcolo
delle probabilità e ha illustrato i risultati nell'opera
Markus in Qumran? Eine Auseinandersetzung mit den Argumenten
fur und gegen das Fragment 7Q5 mit Hilfe des methodischen Fallibilimusprinzips,
pubblicata nel 1990.
A quanto riesco a comprendere da questo scritto piuttosto 'tecnico',
si afferma una probabilità esplicita e 'aperta' per Marco
6, 52-53, finché l'identificazione non venga 'falsificata'
da un'altra differente. So anche che sono state applicate altre
tecniche di elaborazione informatica che favorirebbero tale identificazione,
ma non ho competenza nel settore per offrire una descrizione corretta
e un giudizio dei procedimenti adottati e degli esiti.
Flavio Dalla Vecchia, Ridatare
i Vangeli?, (Brescia 1997, Queriniana)
1997 di Gianfranco Ravasi
L'editore Piemme, forse per farsi perdonare di aver gettato benzina
sul fuoco della passione e non del discorso motivato con pubblicazioni
come i Manoscritti segreti di Qumran di Robert
H. Eisenman e Michael Wise
e il Testimone oculare di Gesù dell'ormai noto Carsten
P. Thiede, affianca a costoro non solo James
H. Charlesworth, direttore del più autorevole 'team'
di studi su Qumran, il Dead Sea Scrolls Project, ma anche
gli altri collaboratori di questo bel volume: tra di essi c'è
pure un italiano, Paolo Sacchi dell'università
di Torino (che è anche l'unico cattolico); gli altri sono
sei studiosi protestanti, due ebrei e due 'liberi pensatori'.
Un'assemblea, quindi, molto variegata dal punto di vista ideologico
e metodologico ma concorde nel liquidare quelle semplificazioni
o quegli 'scoop' che hanno portato sulle prime pagine dei giornali
i testi di Qumran, dando spesso la stura a ipotesi fantascientifiche,
ulteriormente colorate dai giornalisti.
Qualche tempo fa, a esempio, mi hanno mostrato un documentario
della televisione australiana Abc ove una studiosa di quel Paese,
tale Barbara Thiering, senza battere
ciglio dichiarava che il "Maestro di Giustizia" (il personaggio-simbolo
della comunità di Qumran) sarebbe stato contemporaneo di
Gesù, suo rivale interno.
Infatti, sempre secondo la Thiering,
i manoscritti del Mar Morto rivelerebbero che Gesù
era nato a Qumran, non era mai finito in croce ma era stato uno
dei membri di un 'monastero' esseno (come si sa, è convinzione
comune che Qumran fosse popolato da seguaci del movimento giudaico
detto 'degli Esseni' , in greco 'i puri, i pii' ).
Scopo di questo volume è appunto quello di spazzar via
simili fantasie e le analoghe congetture che hanno fatto sospettare
che i ritardi nella pubblicazione dei frammenti (i testi più
ampi, ritrovati a partire dalla famosa scoperta del beduino Muhammad
ed-Dib nel 1947, sono già stati editi) fossero legati
a innominabili paure confessionali cristiane. Al riguardo è
rilevante il ricco saggio iniziale dello stesso Charlesworth
che elenca con puntiglio anglosassone tutte le affinità
tra la dottrina e la prassi del Gesù
storico (24 caratteristiche) ma anche le 27 differenze di tipo
sociologico e teologico che egli ha individuato.
Non deve stupire che esistano contatti tra Gesù
di Nazareth e gli Esseni perché l'orizzonte storico-culturale
entro cui si muovevano era ristretto e passibile di osmosi. Così,
la koinonia, cioè la comunione dei beni dei discepoli
di Cristo (Giuda teneva la cassa
comune secondo Giovanni 12,6 e 13,29) e della comunità
cristiana delle origini (Atti 2,44), la condanna del divorzio,
l'uso della locuzione 'figli della luce' e il concetto evangelico
di "Spirito Santo" sembrano rivelare influenze essene. D'altronde,
in sede strettamente teologica, l' 'incarnazione' - cioè
l'umanita' del Figlio di Dio - dev'essere presa sul serio come
inserzione reale in una trama di relazioni storiche, sociali,
culturali, pena la caduta nello gnosticismo.
Ciò non toglie che lo studio accurato dei testi del Mar
Morto riveli anche divergenze talora radicali, come nel caso della
libertà con cui Cristo interpretava criticamente le Scritture.
Charlesworth arriva al punto di affermare
che le 'antitesi' del Discorso della Montagna (Matteo 5,
21-48: "È stato detto agli antichi: Non uccidere...
Ma io vi dico...") "è molto possibile che fossero indirizzate
contro gli Esseni". Radicale è anche la differenza dell'atteggiamento
di Gesù riguardo al sabato
e alle norme di purità rituale rispetto al costante insegnamento
esseno. L'analisi comparativa, condotta con rigore e non per battute
giornalistiche, si rivela dunque significativa proprio per la
definizione del ritratto del Gesù
storico secondo i criteri storiografici della discontinuità
e della continuità.
In questo senso sono di grande suggestione anche altri temi affrontati
dai dodici saggi qui raccolti. Rimandiamo, a esempio, all'esame
di alcune parabole come quella dei vignaioli omicidi che si può
- proprio attraverso una serie di verifiche comparative - far
risalire a Gesù stesso, al
di là dei rimaneggiamenti redazionali degli evangelisti.
Analogo è il caso di quella dell'amministratore infedele
(Luca 16,1-9), qui studiata da un noto storico ebreo del cristianesimo,
David Flusser, il quale ritiene
che "i figli della luce della parabola in questione possono essere
direttamente identificati con gli Esseni, gli autori dei manoscritti
del Mar Morto" (in Luca 16,8 leggiamo: "I figli di questo mondo
verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce").
Particolarmente delicata è, poi, la questione della crocifissione
di Gesù che alcuni in modo
sbrigativo hanno visto già anticipata nei testi di Qumran
come martirio del "Maestro di Giustizia". Joe
Zias e lo stesso Charlesworth
nel capitolo dedicato al tema sono lapidari: "Non
vi è alcuna prova che il Maestro di Giustizia sia stato
martirizzato o crocifisso; senz'altro non fu venerato come Messia
crocifisso... L'idea che il Maestro di Giustizia fosse stato martirizzato
fu divulgata quando i manoscritti del Mar Morto venivano erroneamente
letti alla luce del Nuovo Testamento, di espressioni e di concetti
cristiani".
Un altro argomento - ed è l'ultimo da noi segnalato, tra
i molti affrontati in queste pagine - è quello dell'ultima
cena di Gesù e della relativa
cronologia. Qui ci viene in aiuto l'unico studioso italiano presente
in questa silloge, il citato Sacchi,
che accoglie la tesi formulata nel 1957 dalla francese Annie
Jaubert. La contraddizione tra la datazione offerta dai
vangeli sinottici e quella di Giovanni riguardo
all'ultima cena di Cristo si potrebbe risolvere affermando che
Gesù seguiva un altro calendario
rispetto a quello farisaico dominante e, così, ritornerebbe
in scena l influenza essena. Influenza approfondita, al riguardo,
dall'ampio saggio di Rainer Riesner
su "Gesù,
la comunità primitiva e il quartiere esseno di Gerusalemme".
"Se si accetta la possibilità - scrive lo
studioso tedesco sulla scia di un suo collega, E. Ruckstuhl -
che il quartiere esseno di Gerusalemme e il luogo in cui
si svolse l'ultima cena di Gesù si trovassero a breve distanza
l'uno dall'altro, vi è un'ulteriore ragione per supporre
che l'ultima cena di Cristo sia stata il pasto della Pasqua ebraica
secondo il calendario sacerdotale", seguito dagli Esseni.
In appendice vogliamo segnalare un'altra importante pubblicazione
su Qumran che è apparsa in contemporanea al testo appena
presentato. Si tratta di un'opera scientifica che vaglia un particolarissimo
rapporto tra i manoscritti del Mar Morto e il Nuovo Testamento,
quello che ruota attorno alla figura di Melchisedek,
il re-sacerdote di Salem (Gerusalemme) che benedice Abramo
offrendogli pane e vino (Genesi 14,18-20). È noto che la
figura di questo personaggio ha un ruolo altissimo nella cristologia
sacerdotale tratteggiata da quella mirabile omelia neotestamentaria
che è la Lettera agli Ebrei. Ebbene, Franco
Manzi, giovane studioso milanese, esamina la presenza
piuttosto diversificata di Melchisedek
negli scritti qumranici, in particolare in un lungo frammento
trovato nella grotta undicesima e noto come il Documento di
Malki sedeq (11Q Melch o 11Q13).
Non sono mancati coloro che, proprio sulla base di questa presenza,
hanno ipotizzato una dipendenza diretta tra la Lettera agli
Ebrei e Qumran, ipotesi che è scartata da Manzi,
anche se egli ritiene possibile affermare una connessione indiretta
nel quadro più vasto dell'angelologia. "Le somiglianze,
infatti, sono spiegabili alla luce della comune conoscenza dei
passi anticotestamentari su Melchisedek e dell'appartenenza di
Qumran e della Lettera agli Ebrei al medesimo background
culturale giudaico". Ancora una volta l'analisi puntuale
e corretta rivela, sì, l'inserzione del cristianesimo delle
origini nel contesto del giudaismo ma esorcizza le eccitazioni
giornalistiche e i facili, 'scandalosi' concordismi.
- James H. Charlesworth, Gesù
e la comunità di Qumran (Casale Monferrato 1997, Piemme)
- Franco Manzi, Melchisedek
e l'angelologia nell'Epistola agli Ebrei e a Qumran",
(Roma 1997, Editrice Pontificio Istituto Biblico)
- Hartmut Stegemann, Gli
Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù (Bologna 1996,
Dehoniane).
1998 Luglio … Testo di Gianfranco Ravasi.
Sulla quérelle tra Gianfranco
Ravasi e Carsten Peter Thiede.
[…] Testimone oculare di Gesù.
…Si arrivava al punto, ad esempio, di considerare pagine evangeliche
come il Discorso della Montagna frutto di appunti presi
da Matteo mentre ascoltava Gesù
su quel non meglio identificato monte. Ma, allora, come
si spiega che Luca - evocando lo
stesso discorso - lo ambienta in una pianura campestre, riduce
le Beatitudini da 8 a 4, mutandone la forma stilistica,
vi aggiunge quattro invettive parallele e trasforma il tema generale
dell'intervento di Cristo? Delle due l'una: o Matteo
è "storico" e Luca è "infedele" o
viceversa! Naturalmente la questione è molto più seria e complessa
di quanto supponevano il docente e il giornalista e dev'essere
affrontata con rigore a più livelli: papirologico, storico, letterario,
teologico. Solo che per farlo seriamente c'è il rischio di cadere
nell'accademismo e di procedere sui sentieri d'altura delle riviste
specializzate (così hanno fatto molti colleghi di fama acclamata
e di preparazione ineccepibile).
Ora, però, uno di costoro, anzi, uno dei maggiori, Graham
Stanton, il quale è nientemeno che il Presidente della
società internazionale degli studiosi del Nuovo Testamento, la
Studiorum Novi Testamenti Societas, ha rotto gli indugi
e ha elaborato un testo di straordinaria chiarezza ma anche di
assoluta serietà e fondatezza, intitolandolo significativamente
La verità del Vangelo.
Come è evidente, egli vuole in una quindicina di godibilissimi
capitoli fare il punto su tutta la questione affrontandola secondo
quei differenti livelli a cui sopra si accennava. Egli non teme
di inoltrarsi in tutti i territori, in quelli divenuti ormai popolari
con le varie approssimazioni pubblicistiche (pensiamo all' ormai
famoso 7Q5 di Qumran che per alcuni conterrebbe un brandello del
Vangelo di Marco) ma anche in quelli ben più ardui e "minati",
come ad esempio la testimonianza pasquale sulla morte e risurrezione
di Cristo.
E le ultime righe del suo scritto sono significative nel definire
la delicata connessione fra fede e storia propria del genere letterario
"Vangelo" che non è un manuale, una biografia storica né un trattato
sistematico: "Noi abbiamo nei Vangeli testimonianze storiche
precise; in essi abbiamo quattro immagini diverse di Gesù
lasciateci dagli evangelisti che intesero presentare la
storia al fine di proclamarne il significato".
È questo il difficile crinale sul quale si deve procedere
con attenzione, senza lasciarci attrarre dal balenio di frammenti
papiracei più o meno brillanti. I Vangeli sono testi nei quali
la storia è indispensabile ma insufficiente. L'evento "Gesù" è
capitale e radicale ma non esaurisce la persona di Gesù
Cristo presentata da quei quattro libretti perché in essa
s'innesta il trascendente, il mistero, il divino. Emblematica
è la Pasqua che è quasi il prisma ottico che filtra l'analisi
degli Evangelisti: in essa, infatti, si annodano la morte, cioè
la storicità e l'umanità, e la resurrezione, cioè la fede e la
divinità. È questo il nodo d'oro che tiene insieme i Vangeli.
Graham Stanton, La verità del
Vangelo (1998, San Paolo, Cinisello Balsamo)
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II vangelo sinottico
[secondo la tradizione]
[considerato
cronologicamente il primo: 65-70
e persino 50 d.C. per i sostenitori della presenza di Marco
in quel papiro (frammento 7Q5 – frammento
5 della grotta 7 – del "monastero"
giudaico di Qumran),
l'evangelista Marco-Giovanni
[i due nomi sono usati indifferentemente negli Atti degli Apostoli]
scrive il secondo vangelo sinottico.
Egli è chiamato da Pietro
"figlio mio" il che fa supporre lo abbia battezzato.
[Poiché nelle antiche testimonianze è spesso citato
come "seguace" e "discepolo" di Pietro,
è quasi da escludere che sia stato discepolo di Gesù.]
Scritto originariamente in greco anche se diretto principalmente
a lettori latini, in particolare a pagani convertiti, il suo scopo
è quello di dimostrare che Gesù
è veramente il Figlio di Dio, come si afferma nel primo
versetto.
[Questo di Marco è il più
breve dei vangeli, si compone di sole 11.229 parole greche
con un lessico di 1.345 vocaboli.
[Vedi Germania 1981]
Secondo il racconto agiografico l'evangelista morì ad Alessandria
dopo avere subito il martirio. Le reliquie vennero tradotte a
Venezia assai più tardi, nell'829 o nell'832, da due mercanti
che le avevano acquistate da due ecclesiastici. Intorno al possesso
delle reliquie che conferiva alla città lagunare la supremazia
su quelle circonvicine, specie su Aquileia, ricollegandosi al
concetto della praedestinatio, si scatenò una battaglia
tessuta di leggende. Giunte a Venezia le reliquie vennero da principio
custodite dal doge Partecipazio in
una cappella sita in Palazzo Ducale, poiché la basilica
primigenia, che doveva venire dedicata al martire e fungere anche
da cappella ducale, venne eretta dopo la morte del doge, sul modello
dell'apostoleion di Costantinopoli. Poco si conosce del
più antico edificio, distrutto verso la fine del X secolo
da un incendio e ricostruito nel luogo dove sorge la basilica
attuale, dedicata nel 1094.
Il vangelo di Marco è stato
"scoperto" solo recentemente [Non è questo un riferimento
al tormentone storico-filologico iniziato nel 1972 e ancor oggi
non placato, attorno all'ormai celebre frammento 7Q5 di Qumran,
contenente – secondo il papirologo José
O' Callaghan – alcune lettere greche di una frase presente
in Marco 6,52-53, in particolare quelle Nnes che sembravano far
parte del toponimo evangelico Gennesaret, indicante un centro
che in passato aveva dato il nome al cosiddetto lago di Tiberiade.]
proprio perché quello di Marco
è stato uno dei vangeli più dimenticati. I
Padri della Chiesa infatti, a questo libretto apparentemente schematico,
avevano preferito il più solenne e compiuto vangelo di
Matteo, il più intenso
e raffinato vangelo di Luca
e, naturalmente, il più "teologico" vangelo di Giovanni.
Il primo commento latino integrale a Marco
appare solo nel V-VI secolo ed è uno Pseudo-Girolamo
di scarso interesse, mentre per averne uno nell'antica e feconda
esegesi greca bisognerà attendere fino al X secolo con
un non celeberrimo Eutimio Zigabeno! È solo nel XX secolo
che questo vangelo, considerato cronologicamente il primo (v.
sopra), riceve un'attenzione straordinaria e viene circondato
dalle premure di commentari spesso monumentali o comunque rilevanti
(pensiamo a quelli di Schweizer,
di Taylor, di Grundmann,
di Lohmeyer, di Schmithals,
di Pesch, di Ernst,
di Gnilka e così via, nella
maggior parte tradotti anche in italiano). Ci si era, infatti,
accorti che quello di Marco non era
solo il primo vangelo ma anche il primo progetto di annunzio (o,
come si dice tecnicamente, di kerygma) della figura e del
messaggio di Gesù Cristo a
un orizzonte pagano (più che ai Romani, come si è
soliti dire, si deve piuttosto pensare alla Siria e alla Decapoli,
la regione ellenistico-romana della Palestina). Di lui,
di quel Marco che avrà come
emblema il leone, scelto tra i quattro esseri viventi del capitolo
4 dell'Apocalisse, sappiamo ben poco.
Alcuni esegeti hanno identificato un tratto autobiografico in
quel giovane che fugge nudo lasciando in mano agli avversari di
Cristo la "sindone" o lenzuolo in cui era avvolto per dormire
nella notte drammatica dell'arresto di Gesù
nel Getsemani (14,51-52).
Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (l'attuale Pamukkale
in Turchia, famosa per le sue cascate pietrificate), attorno al
130 disegnava questo ritratto dell'evangelista: "Marco, divenuto
interprete di Pietro, scrisse accuratamente tutte quante le cose
che ricordava, però non in ordine: sia le cose dette sia
le cose fatte dal Signore". Quel "non in ordine" (ou taxei)
la dice lunga sul giudizio che già allora si dava sull'opera
marciana...
In alcuni passi paolini e nel capitolo 12 degli Atti degli
Apostoli fa capolino un Marco,
nipote di Barnaba e collaboratore
di Paolo, mentre il nesso di Marco
con Pietro e Roma è dedotto
da Prima Lettera di Pietro ove si legge: "Vi abbraccia
la comunità radunata in Babilonia (Roma?) e Marco,
figlio mio" (5,13).
Ma ritorniamo al suo scritto, giudicato con riserva da Papia,
esaltato invece da un nostro contemporaneo come Bas
van Iersel che lo considera un capolavoro narrativo a doppia
trama. Marco è uno scrittore
"povero": usa un lessico di 1.345 vocaboli, ama la paratassi (il
suo dettato è un costante singhiozzare di kai... kai...,
"e... e..."), per Schmithals egli
era ignaro di letteratura. Eppure questa povertà conquista,
genera un'impressione di vivacità e di immediatezza e conquista
il lettore moderno abituato alla secchezza tutta cose dello stile
giornalistico. Marco sa, comunque,
selezionare ben dieci vocaboli latini trascrivendoli a caratteri
greci, usa undici termini per descrivere la casa e la sua quotidianità,
dieci per i vestiti, nove per i cibi, non disdegna le parole popolari
("branda", "paesotti"), predilige i diminutivi ("barchetta", "pesciolini"",
"cagnolini", "ragaz- zina"). Ci sono nel suo racconto apparentemente
semplificato pennellate pittoresche tant'è vero che gli
esegeti hanno coniato la locuzione "tratti marciani": sono annotazioni
destinate a rendere realistici, carichi di umanità e "testimoniali"
quadri che Matteo presenta invece
in modo più ieratico ed epifanico. Ma ciò smentisce
il giudizio di Papia e che intriga
il lettore accorto di oggi è proprio l' "ordine" del vangelo
marciano, cioè il suo progetto teologico-narrativo.
Uno studioso svedese, E. Sjoberg,
l'ha presentato con un'immagine. Si ha qualcosa di simile a quando
si entra in una basilica immersa nella penombra: inizialmente
si intravede solo confusamente il volto che domina l'abside; ma,
proseguendo verso l'interno, esso si svela nitidamente e alla
fine si contempla in piena luce il Pantokrator, cioè il
Cristo, Figlio di Dio sfolgorante nella sua gloria. Ecco, Marco
ci conduce per i primi otto capitoli del suo libretto al seguito
di Gesù,
predicatore e guaritore ambulante che impone il silenzio agli
spettatori e ai destinatari dei suoi miracoli e che si ammanta
di quello che gli studiosi hanno chiamato il "segreto messianico".
A metà del vangelo, in 8,27-30, il velo di questo segreto
è parzialmente squarciato dalla confessione di fede di
Pietro che dichiara Gesù
come il Messia atteso: "Tu sei il Cristo" (è noto che il
greco christòs è la traduzione dell'ebraico
mashiah, "consacrato", da cui deriva il nostro "messia").
Il viaggio nel segreto di Gesù
continua perché egli annunzia di non essere un Messia trionfale
ma un "Cristo" sconcertante, vittima e sconfitto. Proprio quando
avrà raggiunto il patibolo della croce, la voce di un pagano,
il centurione romano, solleverà definitivamente il velo
sul volto di Gesù
mostrando il segreto della sua identità ultima: "Veramente
quest'uomo è Figlio di Dio!" (15,39). E la risurrezione
non fa che sigillare questa proclamazione definitiva.
Il vangelo di Marco è giunto
a noi quasi certamente munito della finale. Quella, infatti, che
troviamo nelle nostre edizioni in 16,9-20 e che è la conclusione
"canonica", è solo una delle diverse finali che la tradizione
ci ha trasmesso (ed è forse una sintesi successiva dei
dati riguardanti le apparizioni pasquali). D'altronde Marco
aveva ormai detto tutto prima, secondo un progetto che già
limpidamente il titolo premesso al suo scritto annunziava: "Vangelo
di Gesù
Cristo, Figlio di Dio" (1,1).
1995, nell'ampio e dettagliato catalogo
che commenta la mostra Omaggio a San Marco, il problema dell'identificazione
del testo del frammento 7Q5
di Qumran, con i versetti 6,52-53 del vangelo di Marco,
viene liquidato con esecuzione sommaria.
A conclusione della mostra la Procuratoria marciana ha organizzato
un convegno dal titolo "Il Vangelo di Marco", al quale ha partecipato
anche padre O' Callaghan, cui si
deve tale identificazione, oltre a una tavola rotonda sul tema
"Il Vangelo di Marco a Qumran? Esegesi e fede", dove l'interrogativo
dispone, ad evidentiam, al dibattito.
Schierati alcuni dei sostenitori di tale lettura, Carsten
Peter Thiede di Paderborn, esordisce asserendo che "il
ritrovamento del frammento 7Q5 a Qumran è una sfida". Le
ragioni a sostegno dell'identificazione sono così complesse
da non consentirci di ripercorrerle senza rischiare di precipitare
in errori che presterebbero il fianco a critiche incontrollabili;
benché la sfida sia di ordine eminentemente storico, le
implicazioni teologiche tutti sanno a quali tensioni conducono.
Da più parti si vuol sottolineare l'irrilevanza sostanziale
delle scoperte papirologiche di Qumran, con la conseguente retrodatazione
dell'evangelo di Marco, in relazione
al problema del valore storico del testo che secondo molti esegeti
non può essere determinabile alla luce di metodi e risultati
sensazionalistici. A tale obiezione ha fatto implicitamente riferimento
Thiede quando ha rimarcato come l'identificazione
del frammento è stata irragionevolmente osteggiata sulla
base di assunti aprioristici che eludono il dibattito scientifico,
nonostante le prove addotte a sostegno siano più che sufficienti
alla certa attribuzione di qualsiasi altro frammento consimile,
il cui testo non sconfini, però, in problematiche di natura
teologica. Inoltre il frammento 7Q5 non può venire esaminato
se non mediante un metodo interdisciplinare. Su questo tema si
è soffermato anche Giuseppe Ghiberti
dell'Università Cattolica di Milano, dopo aver posto due
quesiti con i quali ha manifestato i propri dubbi: il primo riguarda
la chiusura della grotta numero 7 di Qumran, se sia definitivamente
avvenuta nel 68 d.C.; il secondo se lo stile fiorito utilizzato
nel frammento si esaurisca effettivamente nel 50 d.C.; dubbi,
per altro, rivolti alla datazione, poiché lo stesso Ghiberti
si è premurato di confermare la propria adesione all'identificazione
del testo in quello di Marco, ponendo
tuttavia l'accento sul fatto che non è un frammento di
papiro a dare fondamento alla verità di fede. Questo principio
ovviamente inoppugnabile - si è fatto notare dal pubblico
- non coglie nel cuore la questione che si concentra nel concetto
che la datazione alta del frammento (40-50 d.C.), avvalora incontrovertibilmente
il carattere dei vangeli, quali testimoni di avvenimenti visti,
uditi e raccontati in forma di annuncio da coloro che li hanno
vissuti in prima persona. Tutto ciò rappresenta una dura
opposizione alle teorie razionalistiche di ispirazione bultmanniana,
che sottolineano il ruolo teologico, quindi interpretativo della
prima comunità cristiana post-pasquale nella redazione
dei testi evangelici. Infine, Jullian Carrón
di Madrid, applicando al vangelo una critica di tipo filologico-linguistico
molto circostanziata, ha stabilito un'effettiva corrispondenza
fra il testo e i luoghi di cui si narra; corrispondenza che da
sempre ha creato scetticismo e problemi agli esegeti, in dibattito
sulla vexata questio della diretta conoscenza geografica
dell'ambiente dove Cristo visse. Lo stesso Carrón
ha rimarcato come l'utilizzo di dati oggettivi è, innanzitutto,
a favore della ragione, dalla quale anche la fede non può
che venire corroborata.
1996, Marzo …di Marco Bona Castellotti
Il cippo di Abercio, benché
discusso e controverso, è uno dei documenti più
toccanti della diffusione del cristianesimo nel secondo secolo,
quando la nuova religione era ormai da tempo dilagata, fattasi
largo fra le incomprensioni, le censure, la diffidenza popolare,
le accuse di infanticidio, d'incesto, di magia, ed era penetrata
fra 'le genti'. Allo stato di crisi nel quale l'impero romano
versava tra la fine del secondo e l'inizio del terzo secolo,
crisi determinata dalle lacerazioni interne, dalla pressione di
popoli nemici ai confini, al conseguente spopolamento delle campagne,
corrisponde, per contro, l'accelerarsi del processo di diffusione
capillare del cristianesimo in quei territori nei quali, sino
ad allora, era approdato solo nei centri maggiori. Il suo affermarsi
sempre più incisivo non poteva che destare sospetti, come
forza destabilizzante della tradizione che vedeva nella figura
dell'imperatore il punto di coesione di gruppi di fede diversa,
disseminati nella difforme compagine delle popolazioni soggette
a Roma. All'accusa di ateismo si aggiungeva così l'aggravante
della lesa maestà, tanto che dalla sfera dell'ideale il
conflitto non tardò a sconfinare nella politica.
Da Nerone in poi le reazioni si susseguono,
giungendo sotto Decio, nel 250, a
una persecuzione contro i cristiani diffusa sull'intero territorio
controllato dal potere di Roma.
Nella situazione frammentaria che caratterizzava la società
giudaica al tempo di Gesù, nella quale convivevano, spesso
opponendosi fra loro, i farisei, depositari della Legge, i sadducei,
ossia il partito degli aristocratici, i samaritani e gli zeloti,
coloro che affermavano con 'zelo' un nazionalismo conservatore,
esisteva anche, la comunità degli Esseni. Di loro aveva
fornito un'oscura notizia il "Documento
di Damasco". Altre notizie, in maggior copia, si ricavano
dai numerosi rotoli e frammenti scoperti dal 1947 nelle grotte
di Qumran, località addossata alla sponda nord-occidentale
del Mar Morto, sulle alture del deserto di Giuda.
Del gruppo degli Esseni doveva forse far parte anche Giovanni
il Battista. Un sacerdote appellato "Maestro di giustizia"
dettò alla comunità le norme racchiuse nella Regola.
Già agli inizi del secondo secolo avanti Cristo esiste
un distaccamento di sacerdoti e di devoti, dediti a una forma
di vita comunitaria che affermava, fra l'altro, il celibato. Aveva
lasciato Gerusalemme e si era ritirato nelle zone desertiche del
Mar Morto per condurre una vita ascetica.
Nel capitolo della mostra sulla tradizione scritta, approfondimento
della prima sezione dedicata alla Palestina al tempo di Cristo,
sono esposti, per la prima volta fuori dalla loro sede abituale,
gli originali di alcuni frammenti. Punti fermi di un tema ad alta
intensità, sulla loro interpretazione e sulla loro datazione
si stanno arroventando le polemiche che, rotti gli argini della
filologia e dell'esegesi, invadono il territorio minato della
teologia.
È proprio sul problema della storicità e della
datazione dei Vangeli che diverse scuole di pensiero stanno
affilando le lame della dialettica, specie da quando un gesuita
spagnolo, padre Jose' O' Callaghan
e uno studioso di Padeborn, Carsten Peter
Thiede (direttore della mostra e autore, tra l'altro, del
volume Testimone oculare di Gesù che verrà
pubblicato a maggio in contemporanea mondiale e in Italia presso
Piemme), hanno interpretato la scritta lacunosa che compare sul
frammento 5 della grotta 7 di Qumran (esposto), come un passo
del Vangelo di Marco, retrodatandolo ad anni anteriori
al 50.
Questa anticipazione ha scatenato il livore delle retroguardie
del gregge del teologo protestante Rudolph
Bultmann, un gruppo di esegeti stretti nel busto del
dogmatismo razionalista che, in nome di uno spiritualismo esclusivo
e fondamentalmente antipopolare, pretendono di separare la fede
dalla storia, smantellando la consistenza storica della figura
di Cristo che si riduce a mito. Proiettati in tale sforzo, organizzano
la propria offensiva cancellando le tracce della storicita' dei
Vangeli, così che la fede, sganciata dal fondamento della
storia, si minimizza in puro moto sentimentale, o a quello che
Ludovico Antonio Muratori, due secoli
orsono chiamava un 'entusiasmo', riferendosi all'agitarsi scomposto
di "quacheri e altri fanatici oltramontani".
La presenza dei papiri di Qumran, del frammento
5 con il testo di Marco e del frammento
4 con un passo della prima lettera a Timoteo, che evidenzia
come la Chiesa, allora, fosse già saldamente costituita
secondo una fisionomia precisa, ma anche dei papiri
di Ossirinco, rappresenta il fulcro ideale intorno
al quale si sviluppa il percorso espositivo che, nella seconda
sezione, documenta i viaggi di Paolo
e la diffusione del verbo cristiano, nel suo spirito di coinvolgente
universalismo.
L'affermarsi del cristianesimo procede di pari passo con
l'assimilazione di diverse tradizioni e culture, alla luce del
principio paolino del "giudicate tutto e trattenete ciò
che vale". Il fascino dell'evento cristiano non diminuisce nemmeno
dopo l'editto di Costantino, quando la Chiesa ha libero campo
per organizzarsi ufficialmente.
1997, Luglio … Gianfranco Ravasi
Anche se avvolto dall'aureola prestigiosa
di Pietro, del quale avrebbe raccolto
le memorie e la predicazione, il Vangelo di Marco
è stato per secoli emarginato dall'è esegesi, a
partire dallo stesso Agostino
che non esitava, nel suo De Consensu evangelistarum (I,
2, 4), a liquidare Marco come "il
valletto e il compendiatore di Matteo', il più divino degli
abbreviatori". Che sia il più breve dei quattro vangeli
con le sue 11.229 parole greche contro le 18.278 di Matteo e le
ben 19.404 di Luca è evidente, ma che sia il "compendiatore"
di Matteo è per gli studiosi
moderni un'illusione ottica del grande vescovo di Ippona: in realtà
è Matteo a usare Marco
come fonte e a rielaborarne i dati per cui ben 606 dei 621 versetti
marciani si ritrovano sostanzialmente nel testo matteano. È
così che Marco ha ottenuto
il primato cronologico tra gli evangelisti, con la comune collocazione
tra il 65 e il 70. È noto, anzi, che la contestatissima
identificazione di un passo redazionale marciano (6,52-53) in
un frammento greco dei manoscritti
di Qumran presso il mar Morto ha anticipato ulteriormente
questo primato cronologico, portandolo a prima del 50. Ebbene,
un nuovo commento al Vangelo di Marco, frutto del lavoro
di due esegeti spagnoli e che è tradotto per ora solo nella
sua prima parte (fino a Marco 6,6), sostiene questa ipotesi non
però sulla base del "fragile" papiro qumranico, bensì
su ragioni interne al testo stesso ove emergerebbero segnali che
rimandano al regno di Erode Agrippa I,
cioè agli anni 41-44. Ma il rilievo di questo vasto commentario
(più di 550 pagine per la metà dell'opera marciana)
è da cercare altrove. Esso, infatti, abbandona la via classica
storico-critica e si affida al testo nel suo auto-porsi, prescindendo
dalla sua preistoria, dalla sua formazione e dalla sua redazione.
Sostanzialmente siamo in presenza di un'analisi sincronica di
taglio semiotico. In verità gli autori non usano il linguaggio
critico e autoreferenziale degli stutturalisti (non ci imbattiamo
in nessun "livello attanziale" né nell'omo- o eterodiegesi
né nei "quadrati semantici" e così via) e non ne
rispettano del tutto l'immanentismo testuale ("interpretare il
testo solo mediante il testo stesso"), ma fanno rientrare dalla
finestra alcuni contributi del metodo storico-critico, preoccupandosi
anche del contesto letterario e teologico antitestamentario e
giudaico, delle coordinate socio-culturali dell'epoca entro cui
il vangelo è germogliato e si è insediato.
In questa luce riteniamo positivo aver premuto il pedale dell'esegesi
sulla pagina marciana in sé assunta anche perché,
contrariamente alla cosiddetta Formgeschichte (storia della
formazione e delle forme "evangeliche") bultmanniana che pensava
generalmente agli evangelisti come a compilatori che usavano forbici
ora si è convinti che "ogni evangelista è un teologo
per diritto proprio e ha un'intenzione teologica nello scrivere
il suo vangelo" (R.H. Stein). Detto
in altri termini, nel testo si accendono i segnali luminosi distribuiti
da Marco stesso per definire il suo
progetto e, al di là del suo linguaggio semplice e immediato
che, con evidente esagerazione, H. Turner
aveva definito da "garzone di scuderia", l'evangelista si rivela
abile artefice di un progetto letterario e teologico. La sua narrazione
apparentemente popolare, inceppata dalla singhiozzante ripetizione
di kaià kaià , "e..e...", la sua spoglia
essenzialità, lontana dalla nobiltà ieratica di
Matteo o dell'appassionata eppur
raffinata partecipazione di Luca,
persino il suo apparentemente disordine già segnalato attorno
al 130 da Papia vescovo di Gerapoli
di Frigia, non escludono in realtà una strategia letteraria
e ideale: si pensi alla sua "teo-logia" in senso stretto, cioè
al Dio di Gesù e al suo Regno,
al Cristo Messia, "Figlio dell'uomo" e maestro, alla centralità
dell'Uomo dovuta al fatto che Dio lo si incontra proprio in Gesù,
uomo-Dio, e così via. Il commento di Mateos
- che ha già alle spalle con un altro collega spagnolo
J. Barreto, una precedente analisi
del Vangelo di Giovanni, tradotto dalla stessa editrice
- procede con un impianto abbastanza omogeneo. Dopo aver offerto
la pericope, cioè l unità testuale compiuta che
è come la cellula di una più ampia trama narrativa,
si allineano alcune note fisiologiche in caratteri tipografici
minori quasi a indicarne la funzionalità rispetto alla
successiva comprensione. Si delineano poi l'articolazione del
brano (contenuto e divisione strutturale) e i suoi segnali tematico-interpretativi
e si procede infine alla lettura vera e propria, che è
ovviamente il cuore del commento. Si tratta di un percorso lento,
ma molto accurato e fruttuoso, capace di mostrare quanto il nostro
"valletto" o "garzone di scuderia" sia in realtà originale
e talora persino sofisticato nel suo proporre la figura, l'opera
e la parola di Cristo. La sua apparente povertà lessicale
(usa solo 1.345 vocaboli diversi, ma anche Racine
ne impiegava solo un migliaio' ) si rivela regolata da dosaggi
attenti e da una forza notevole d'impatto e di incisività.
C'è, dunque, da sperare che - anche con questo nuovo sussidio
esegetico - i credenti ritornino con occhio diverso a Marco
proprio in questo anno in cui il testo marciano è letto
a brani nella messa domenicale e i "laici" cerchino magari di
affrontarlo per la prima volta in modo diretto come la prima e
più antica espressione del vangelo di GesùCristo.
J. Mateos-F. Camacho, Il vangelo
di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, (Cittadella,
Assisi 1997, vol. I)
|
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III vangelo sinottico [secondo la
tradizione]
[poco prima del 60 d.C.], l'evangelista
Luca, medico di Antiochia, discepolo fedele di Paolo,
considerato anche l'autore degli Atti degli Apostoli, soprattutto
per lo stile infarcito di terminologia medica, scrive il terzo
vangelo sinottico, diretto a cristiani provenienti sia dal
paganesimo che dal giudaismo.
Esso mette in risalto che Gesù
è il "salvatore" di tutti gli uomini indistintamente.
[Questo di Luca è il più
lungo dei vangeli, si compone di 19.404 parole greche.]
|
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IV vangelo [secondo la tradizione]
[sul finire del I sec. d.C.], l'evangelista
Giovanni, discepolo prediletto di Gesù,
scrive questo quarto vangelo [la sua attribuzione, peraltro
saldissima, già dal II sec. d.C., sarà messa in
dubbio solo nel XVIII secolo], che si differenzia dagli altri
tre non solo nel racconto (spesso suppone e dà per scontato
ciò che già si trova negli altri) e nei luoghi (la
Giudea invece di Galilea) ma anche per l'importanza che attribuisce
alle discussioni dottrinali di Gesù
(per es. con i Farisei).
La terminologia spesso astratta (cfr. i termini luce, verità,
vita) lo farà sempre considerare [anche ai nostri
giorni] un vangelo "spirituale".
[Questo vangelo di Giovanni si compone
di 15.416 parole greche.]
Il francese Claude
Tresmontant, ex professore di
filosofia medievale alla Sorbona (altre volte contraddetto, nelle
sue "incursioni", dal collega francese Pierre
Grelot), ribaltando quindici secoli di esegesi, ha fatto
del quarto il primo vangelo; in seguito
ha affermato che il Vangelo di Giovanni è da collocare
tra il 36 e il 41, sostanzialmente perché non esistono
indizi per riportarlo oltre la seconda metà del secolo.
[Per l'esegesi di Giovanni si rinvia
a Brown, Dodd,
Barrett, Hoskyns,
Schanackenburg, Fabris.]
|
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Su questi modesti libretti, stesi in un greco modesto [in definitiva
sono 64.327 parole, "incomparabili" con quelle scritte da un Platone
o un Erodoto
e un Plutarco], ibridato da forme
"dialettali" semitiche, dalla stilistica modesta, si addenserà
una bibliografia sterminata.
[vedi esempio: Germania 1981]
[vedi Manoscritti
di Qumran o Rotoli del Mar Morto –
1947]
"Origine e datazione dei Vangeli"
I Vangeli sono una cronaca di testimoni
diretti agli avvenimenti della vita di Cristo? Oppure sono testi
redatti sulla base di testimonianze orali? E ancora: può
la scienza nelle sue varie discipline fornire prove sicure per
confermare storicamente ciò che è stato tramandato
dalla fede?
[Per una risposta a queste domande vedi: 1991, ottobre, "In
quel tempo. Origine e datazione dei Vangeli", conferenza tenuta
presso il Centro Culturale San Carlo di Milano, nell'Aula Magna
dell'Università Cattolica.]
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GALLIA
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SPAGNA
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PANNONIA
È provincia romana dal 9 d.C..
I confini sono compresi fra il Danubio, i monti della Bassa Austria,
l'alto corso della Sava, le Alpi Giulie.
[Corrispondente in parte all'odierna Ungheria].
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BRITANNIA
È provincia romana dal 48 d.C..
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EGITTO |
30 a.C.-641 d.C. Epoca romana
e bizantina. |
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CINA
Kuang Wu-Ti
[Dinastia Han occidentali]
? (il ?), Ti è una delle parole cinesi
che indicano la maestà imperiale;
22-?, imperatore della Cina;
la capitale dell'impero è fissata a Lo yang;
ristabilisce la proprietà terriera e il confucianesimo;
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– Epitteto (Ierapoli 50-138)
filosofo greco;
con Seneca
e Marco Aurelio è uno dei rappresentanti
più notevoli del tardo stoicismo;
schiavo di un liberto di Nerone, conosciamo
il suo pensiero attraverso lo storico suo scolaro Arriano
di Nicomedia che compose le Epicteti dissertationes
e il Manuale.
– Stazio, Publio Papinio (Napoli
50 ca-96 ca) poeta latino;
figlio d'arte (il padre era poeta egli stesso e grammaticus,
cioè maestro di scuola e commentatore di poeti greci), fu iniziato
precocemente alla poesia;
dopo successi locali (negli augustalia, pubblici concorsi quinquennali),
segue il padre che trasferisce la sua scuola a Roma (prima del 69);
qui egli si afferma subito presso la società elegante (e amante
della bella letteratura) dei salotti vicini alla corte;
La Tebaide (poema epico di argomento mitologico, in XII libri,
compiuto nell'arco di dodici anni; tratta della spedizione dei Sette
a Tebe)
Silvae (89-95 ca, V libri, raccolta di
trentadue carmi d'ccasione)
Negli anni più torbidi del "terrore di Domiziano,
torna nella sua Napoli dove muore.
– Tacito,
Cornelio (55 ca-120 ca) uomo politico e storico romano.
[Incerti luogo e data di nascita, la paternità e lo stesso
prenome (Publio o Gaio).]
– Valerio Massimo
(sec. I d. C.) storico romano;
accompagna nel proconsolato in Asia Sesto Pompeo;
Factorum et dictorum memorabilium libri IX (manuale di esempi
retorico-morali, dedicato all'imperatore Tiberio)
[Le ampie critiche a Seiano
contenute nell'opera fanno pensare che essa sia stata pubblicata subito
dopo la caduta di questi, nel 31 d.C..
Il materiale, tratto da antichi annalisti, da Varrone,
Livio e da raccolte analoghe, è
ordinato secondo criteri filosofico-morali ma con un piano non ben definito.
Citata da Plinio e da Plutarco,
l'opera (conservata) sarà letta per tutto il Medioevo.
Se ne possiedono anche due epitomi; una di Giulio
Paride, forse del sec. IV, che aggiunge al riassunto un breve
sommario sui nomi romani, De praenominibus, tramandato in alcuni
manoscritti come decimo libro dell'opera stessa di Valerio; e una seconda,
interrotta nel III libro, di Ianuario Nepoziano
(sec. V).]
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ROMA
41-54, Claudio
imperatore;
51, Afranio
Burro prefetto del pretorio;
54, Claudio muore per avvelenamento
ad opera della quarta moglie Agrippina.
[I suoi studi (Tyrrhenikà, la Storia
degli etruschi) vengono sbeffeggiati. Significativa la satira che Seneca
osa pubblicare subito dopo la sua morte, dell'imperatore; si intitola
Apokolokyntosis, alla lettera "zucchificazione"
dove la zucca è simbolo della stupidità. Con acrimonia
Seneca
illustra la morte e il viaggio al cielo e poi all'inferno dell'imperatore
assassinato.]
Nello stessoanno, durante il consolato di Marco Asinio e Manio Acilio
è annunciato da frequenti resagi l'avvento di gravi vicende!
Come allamorte di Cesare, di nuvo si avvista in cielo una cometa.
Con la sua morte si chiude anche la decima e ultima età etrusca.
Gli arùspici annunciano la fine della nazione etrusca.
54-68, Nerone
imperatore;
55, Nerone
fa uccidere Britannico, figlio di Claudio
e di Messalina;
59, Nerone
fa uccidere la madre Agrippina;
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