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– Alberto RADICATI, conte di Passerano e Cocconato o Albert Barin
(Torino, 11 novembre 1698 – L'Aia, 24 ottobre 1737), filosofo italiano; Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti.
1720
1726 1728 1730 Raccolta di scritti curiosi sulle materie più interessanti (1730-36, di cui fanno parte i Discorsi morali, storici e politici) 1732 Amico e famigliare dei più illustri pensatori inglesi del principio
del secolo, ritrae nei suoi scritti la loro maniera un po' spregiativa
di considerare la religione, e si fa forte di citazioni inglesi e massimamente
di A.
Collins nella parte che riguarda la tolleranza religiosa.
Al libro di quest'ultimo Discorso sul libero pensiero (1713)
egli si rimette difatti quando si scaglia contro la dottrina persecutrice
del Compelle intrare. ____________________ Wikipedia Il grottesco-ironico racconto della sua «conversione» pubblicato a Londra nel 1730 – e ripubblicato nel 1734 con il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion – induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico Radicati presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità». Narra infatti come, a partire dal contrasto tra «santoni bianchi» e «santoni neri» – i frati cistercensi e quelli agostiniani – sui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso à faire usage de ma raison (a far uso della mia ragione). Importante per l'ulteriore maturazione intellettuale del Passerano è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tra il 1719 e il 1721 in cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi «libertini» come La Sagesse di Pierre Charron, l'Hexameron rustique di Le Vayer o il Traité contre la Médisance di Guy de La Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principale – I discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II – nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e papa Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, nel febbraio del 1726 lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni. L'esilio a Londra e nei Paesi Bassi[modifica | modifica wikitesto] Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio Radicati si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da John Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale – ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una «democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo» - per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica Radicati fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose. Il naturalismo materialista della Dissertazione filosofica sulla morte
(1732)[modifica | modifica wikitesto] L'universo di Radicati è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta, per Radicati sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo. A Radicati è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: Wir sterben um zu leben, noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensieri – e anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?» Opere
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